Ritrovare se stessi di lunedì

Ritrovarsi di lunedì

Quel lunedì, Ginevra si svegliò prima del solito. Non per la sveglia, non per qualche rumore — semplicemente aprì gli occhi. Come se dentro di lei si fosse spento un motore invisibile che per anni l’aveva fatta alzare di colpo ogni mattina. Erano le 6:42. Fuori cadeva una nevischiata grigia e umida, come se volesse insinuarsi nella stanza attraverso ogni fessura. L’aria in casa era densa, straniera. E qualcosa in quel mattino era già sbagliato.

Rimase sdraiata ad ascoltare il termosifone vecchio che gemeva. Un suono irregolare, quasi un lamento, come se dentro qualcuno si grattasse per uscire. Probabilmente era la pressione, o forse era il freddo. O forse era lei a essere ormai fredda dentro — chi poteva misurarlo, dove davvero era avvenuto il guasto?

In cucina tutto era al suo posto: la tazza bianca con la crepa, il frigo coperto di magneti di città dove non era mai stata, il pane raffermo sul tagliere. La mano andò verso il cassetto del cibo per il gatto. Ma il gatto non c’era più. Da un anno. Eppure la mano aveva una memoria sua, più forte del presente.

Ginevra lavorava in una copisteria vicino a una tipografia, alla periferia di Bologna. Sei anni. Lì l’odore era sempre lo stesso: carta, vernice, caffè della macchinetta e una stanchezza antica. Ogni giorno era una copia del precedente. Le facce, uguali; i discorsi, ripetuti; il senso, ormai svanito. I colleghi erano prevedibili: Luca con le sue barzellette sulla moglie, Giulia che parlava dei suoi drammi amorosi persino in bagno col vivavoce, e Umberto, il vecchio stampatore, la cui vita era finita quando il suo cane era morto. E lei — non più una persona, ma una funzione, un ingranaggio in un sistema dove non c’era spazio per sentimenti o ribellioni.

Si guardò allo specchio. Un volto senza particolari. Né vecchio, né stanco. Solo estraneo. E nella mente le sfiorò una domanda: «Perché?» E subito dopo, il vuoto. Perché non c’era risposta. E non c’era da tempo.

Non andò al lavoro. Semplicemente non uscì. Rimase sull’autobus, guardando scivolare via il proprio ufficio come fosse una scenografia. E lei una spettatrice troppo stanca persino per applaudire. Arrivò in un altro quartiere, dove una volta, in terza superiore, con Federica beveva succo di cartone e baciava ragazzi di cui non ricordava più nemmeno il nome. Allora tutto era diverso. Dolce. Libero.

Ora su quell’angolo c’era un chiosco color menta con un menu scritto a mano. Ginevra comprò un caffè alla cannella — la prima volta in vita sua. Prima non lo sopportava. Ne bevve un sorso e sentì la lingua bruciare, mentre dentro qualcuno accendeva una luce.

Girò per i cortili, osservò una nonna che spezzava il pane ai piccioni come se stesse dividendo la propria anima. Un ragazzo che rideva cadendo nella neve. Una donna con il foulare che sistemava il passeggino. Tutto sembrava accadere in una recita, e lei finalmente aveva smesso di recitare e guardava soltanto. In quel guardare c’era una strana sensazione — né dolore, né felicità, ma qualcosa di caldo, umano. Come se le avessero permesso di nuovo di sentire.

Alle due entrò in un salone di parrucchiere. Senza prenotazione.
«Cosa desidera?» chiese l’estetista.
«Taglio. Corto. Voglio che mia madre si spaventi.»
«È fatta,» sorrise la donna, prendendo le forbici.

I capelli caddero a terra come il passato. Ogni ciocca un ricordo, un rancore, un grido represso. Quando uscì con il nuovo taglio, corto e ribelle, si sentì più leggera. Come se qualcuno che le aveva occupato il petto troppo a lungo avesse finalmente deciso di andarsene.

Comprò una focaccia ripiena di verdure e la mangiò per strada. Entrò in libreria e scelse il libro più inutile — «Lezioni di metafisica». Solo per dimostrare a se stessa che poteva. Scegliere. Essere strana. Essere sé. All’improvviso rise. Davvero. Senza motivo. Le lacrime le rigarono il viso, e i passanti si voltarono. Ma a lei non importava. Perché per la prima volta era lei, ridere, viva.

La sera tornò a casa. La madre era vicino alla finestra, con la solita felpa che indossava quando cucinava la domenica.
«Dove sei stata?»
«A passeggio.»
«Sei viva?»
«Sì.»
«Meno male,» disse la madre, posando la pentola sul fuoco.

Mangiarono in silenzio. Solo il tintinnio delle posate. La luce della candela tremolava sulla finestra.
«Domani mi licenzio,» disse Ginevra. «E inizierò un corso. Non so ancora quale.»
«L’importante è che non resti in silenzio,» rispose la madre. «Il silenzio è come la muffa. Ti consuma dentro.»

Ginevra annuì. Perché in quel lunedì, in una città piena di nevischio e facce stanche, aveva finalmente sentito di essere — non ciò che gli altri volevano, non ciò che doveva. Solo sé stessa. E non serviva altro.

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