«Figlio, avrai una casa. Ma ti prego, abbi cura di tua sorella malata. Non la puoi abbandonare», sussurrò la madre.

**Diario di Marco Lombardi**

«Figlio mio, avrai una casa. Ma ti prego, abbi cura di tua sorella malata. Non puoi abbandonarla», sussurrò mia madre con voce tremante.

«Ascoltami, Marco…» riuscì a dire, mentre ogni parola le costava un dolore infinito. La malattia la stava consumando senza pietà. Era così fragile che sembrava svanire sotto le coperte. Non sembrava più lei, la donna forte e piena di vita che avevo sempre conosciuto.

«Ti supplico, non lasciare Graziella… È diversa, ma è nostra. Promettimelo…» La sua mano, all’improvviso, mi strinse con una forza inaspettata. Cosa le restava ancora, mi chiesi.

Abbassai lo sguardo verso mia sorella maggiore, Graziella, seduta in un angolo della nostra piccola casa a Napoli. Aveva più di quarant’anni, ma passava le giornate a cullare una bambola, cantando strofe senza senso. Sorrideva, come se la vita fosse sempre una festa, anche davanti a nostra madre morente.

Io, invece, avevo ottenuto successo: un’impresa edile, un SUV di lusso, una villa affacciata sul mare a Positano. Ma lì non c’era posto per Graziella. I miei figli la temevano, e mia moglie, Bianca, la chiamava «quella pazza». Eppure, Graziella era innocua: silenziosa, incapace di fare male a nessuno.

«Sai… ho una famiglia… e Graziella… è complicato», balbettai, cercando di liberare la mia mano dalla sua presa.

«Marco, la casa di tuo padre sarà tua. Ma per Graziella ho lasciato un trilocale a Roma. Tutto è già sistemato.»

«Come hai fatto?!» Io e Bianca ci scambiammo un’occhiata stupita. Il nostro interesse era palpabile.

«Ho assistito una maestra in pensione… Le portavo da mangiare, le medicine. Era sola, gentile. Non mi aspettavo che mi lasciasse il suo appartamento. L’ho intestato a Graziella, perché avesse un tetto. Ma tu… guardala, ti prego… Un giorno, quell’appartamento sarà dei tuoi figli o nipoti… Chissà quanto vivrà ancora…»

Ci salutammo. Quella stessa notte, se ne andò.

Graziella sembrava non capire di essere rimasta sola. La portai a casa mia e iniziai i lavori nel trilocale.

«A che serve a lei tutto quello spazio? Resti qui, e affittiamo l’altro», dissi a Bianca, entusiasta del piano.

Lei, inizialmente, non oppose resistenza. Graziella non dava problemi: giocava con le sue bambole o riordinava vestiti nel guardaroba, sempre sorridente. Ma la sua stranezza inquietava. «Oggi è tranquilla, ma domani?» bisbigliava Bianca.

«Dai tempo», le chiesi. Ma dopo sei mesi, con l’aiuto di un notaio compiacente, misi tutto a mio nome: la casa paterna e l’appartamento di Graziella. La convinsi a firmare senza spiegarle nulla.

Da allora, la sua vita divenne un inferno.

Quando ero al lavoro, Bianca la tormentava. La insultava, la rinchiudeva per ore, le negava persino una passeggiata. A volte le dava cibo per gatti, ridendole in faccia. Una volta la schiaffeggiò, e Graziella, per la paura, si bagnò addosso.

«Non solo sei pazza, ma pure incontinente?! Fuori di casa mia!» urlò Bianca, gettando i suoi vestiti in un sacco della spazzatura e cacciandola via.

«Dov’è Graziella? Non l’ho vista oggi», chiesi quella sera a letto.

«Se n’è andata!» sbottò Bianca. «Si è pisciata addosso, poi ha preso le sue cose ed è scappata. Mica posso rincorrerla!»

Mi irrigidii. «Beh, se è così…» accesi la TV. «Comunque, ho trovato inquilini per il trilocale.»

Non dormii. Pensai a Graziella tutta la notte. Era fragile come una bambina. All’alba, caddi in un sonno agitato. Sognai mia madre:

«Te l’avevo chiesto, Marco…» mi disse dal suo feretro, puntandomi un dito.

Quel sogno mi perseguitò. Dopo due mesi, chiamai mia madrina, zia Anna, sperando sapesse qualcosa.

«Cos’è, ti rode la coscienza?» disse gelida. «Per fortuna sono passata da tua madre. Graziella era lì, terrorizzata. Ora vive con me. Io non voglio il suo appartamento. Tu, invece, vivrai con il rimorso. Spero che la ragione non ti abbandoni mai!»

«Basta, zia…» riattaccai, sollevato. Almeno era al sicuro.

Graziella morì due mesi dopo, della stessa malattia di nostra madre. Non andai al funerale: «lavoro urgente».

Ora sono io a letto, logorato dal dolore. Bianca vive con un altro. I miei figli mi evitano.

Un giorno mi portò dei documenti:

«Firma, per sistemare l’azienda.»

Lo feci. Era una donazione. Troppo tardi per capire.

«Perdonami…» piango nel buio.

La vita ti ripaga sempre. Ho tradito il sangue, e ora il sangue mi abbandona.

Rate article
Add a comment

;-) :| :x :twisted: :smile: :shock: :sad: :roll: :razz: :oops: :o :mrgreen: :lol: :idea: :grin: :evil: :cry: :cool: :arrow: :???: :?: :!:

twenty − 18 =

«Figlio, avrai una casa. Ma ti prego, abbi cura di tua sorella malata. Non la puoi abbandonare», sussurrò la madre.