Sei mesi sotto lo stesso tetto con suocera: come ha distrutto il nostro matrimonio
Mezzo anno fa, la mia vita si trasformò in un circolo vizioso di ansia. Mia suocera, Bianca Maria, annunciò che non poteva più vivere da sola. Lacrime, pressioni, discorsi su solitudine e paure notturne. Fece leva su mio marito, e lui, senza consultarmi, la trasferì d’urgenza nella nostra bilocale nel centro di Firenze.
Lei, tra l’altro, aveva una casa con giardino e una cucina spaziosa. Ma a quanto pare, lì era “troppo silenzio”. Nessuno l’aveva abbandonata, nessuno la ignorava. La visitavamo, le portavamo la spesa, aiutavamo con le medicine. Ma lei volle diverso: controllo totale. Su suo figlio. Su di me. Sulla nostra vita.
Bianca Maria era insopportabile: testarda, capricciosa, con manie di grandezza. Quando suo marito era vivo, almeno manteneva le apparenze. Dopo la sua morte, sparita l’unica persona che la frenava, iniziò l’inferno.
All’inizio, il lutto. Tutti soffrimmo la perdita. Era davvero afflitta, e io, benché i nostri rapporti fossero freddi, stetti al suo fianco. Non la lasciavamo mai sola. Ma dopo qualche mese, nei suoi occhi riapparve una luce, purtroppo non di dolcezza, ma di dominio.
Ricominciò con le frecciatine:
— Non potresti almeno pettinarti prima che torni tuo marito?
— Cos’è questa carne? Sembra una suola. Tua madre non ti ha insegnato a cucinare?
E poi i paragoni continui: «La figlia di Luisa ha un marito che adora il sugo, mentre il tuo storce il naso…». Peccato che Luisa fosse sua nipote, con tre figli e un marito che non osava aprire bocca senza permesso.
Quando propose di trasferirci da lei, mi oppossi con tutte le forze. Sì, la sua casa era più grande. Ma non avrei potuto respirare. La nostra, invece, benché piccola, era in centro: lavoro, asilo, negozi a portata di mano. Soprattutto, era casa nostra. Ma nessuno mi ascoltò. Mio marito dava retta solo a lei:
— Mamma, sei sola… Certo, vieni da noi, starai meglio.
Lo supplicai di riflettere. Lo avvertii. Sapevo come sarebbe finita. Ma lui promise:
— È temporaneo. Tengo io la situazione. Non ti farò soffrire.
Passarono sei mesi. In quel tempo, smisi di riconoscermi. Ero irritabile, stanca, svuotata. Ogni giorno uguale all’altro. Dalla mattina alla sera, servivo una donna adulta e autonoma, che però pretendeva che mi dedicassi a lei come una cameriera di un hotel a cinque stelle.
— Un tè con limone, ma non bollente.
— Accendi la serie, ma non questa, mi alza la pressione.
— Andiamo a passeggiare, non sono mica un cane alla catena.
Se sbagliavo qualcosa, scattava il dramma:
— Sto male! Chiamate l’ambulanza! Il cuore!
Io e mio marito sognavamo una vacanza al mare, una settimana per staccare. Ne avevo bisogno. Ma appena ne parlammo, Bianca Maria inscenò un pianto isterico:
— Mi lasciate di nuovo? Non valgo niente! Portatemi con voi o restate qui!
Mio marito, come sempre, tacque. Si limitò a scrollare le spalle.
— Che posso fare… È mia madre.
Io, invece, posso. Non ne posso più. Non ho chiesto palazzi, diamanti o lussi. Volevo solo vivere con mio marito e i bambini, in una casa dove nessuno mi soffiasse sul collo insegnandomi a tagliare le carote. Ma neanche questo mi è stato concesso.
La famiglia si sgretola. Vedo svanire rispetto e amore. Mio marito ha scelto di essere figlio. Io sono stanca di essere la vittima.
Se per lui sua madre conta più della moglie e della famiglia, allora resti con lei. Non sono di ferro. Sono una donna, non un’ombra piegata alla volontà altrui. Se il divorzio è il prezzo della mia pace, sono pronta a pagarlo.