**Dove dormi**
Non so perché, ma ultimamente mi ritrovo spesso nelle stazioni. Forse perché i treni non aspettano nessuno – partono in orario, anche se non sei pronto. O forse perché le banchine sono più facili da respirare: rumore, movimento, facce sconosciute. Nessuno ti osserva troppo a lungo. Nessuno fa domande. Tutto è fugace, come se la vita stessa qui fosse solo un cambio di direzione. E in questa transitorietà c’era qualcosa di confortante. Nessuno sapeva chi eri prima di stamattina. Nessuno chiedeva perché avevi gli occhi rossi e le mani che tremano.
Tre volte alla settimana, dopo il turno all’ospedale, facevo una sosta alla Stazione Termini. Compravo un caffè in vetro con lo zucchero già dentro, un cornetto, e mi sedevo vicino alla finestra nella sala d’aspetto. A volte restavo semplicemente immobile, sentendo il calore della tazza come l’unica cosa stabile di quella giornata. Altre volte scrivevo sul taccuino – non pensieri, ma solo parole, per assicurarmi di saperle ancora mettere insieme. A volte guardavo il tabellone – non per partire davvero, ma per ricordarmi che potevo. Che potevo andarmene. Potevo tornare. Potevo diventare qualcun altro. O almeno ritrovare me stessa, e non quella che era rimasta nel passato.
Un anno fa, mio fratello è scomparso. È uscito di casa e non ha più fatto ritorno. Nessuna chiamata. Nessun biglietto. Neppure un indizio dalle telecamere. Come se si fosse dissolto nell’aria. La Polizia ha detto: “Succede. Gli uomini a volte se ne vanno da soli”. Hanno archiviato il caso con un’alzata di spalle. Ma io sapevo: non se n’è andato. È svanito. Come una luce che si spegne. Senza preavviso. Senza spiegazioni. Qualcuno lo aveva strappato via dalla mia vita, senza lasciare nemmeno un’ombra.
Mia madre si è chiusa nel silenzio. Guardava il muro, non mangiava. Mio padre si è rinchiuso in sé, parlava a denti stretti, come se la casa fosse diventata un luogo straniero. Io ero rimasta – con le foto, con l’odore della sua giacca, con domande senza risposta. Il casa era piena di echi. Tutto ciò che un tempo aveva un suono vivo, ora risuonava di vuoto.
I primi mesi ho cercato: ospedali, obitori, volontari. Ho affisso volantini alle fermate dell’autobus. Ho guardato negli occhi i senzatetto, sperando che uno di loro si voltasse e fosse lui. Poi ho smesso. Non perché avessi accettato. Solo perché ero stanca di sperare senza niente in cambio. La speranza è come un fuoco: si spegne se non la alimenti. E ho capito che l’unico modo per continuare era respirare. Senza una meta. Senza certezze. Ma respirare.
Alla stazione, un giorno ho notato un ragazzino – sui sette anni, con una felpa troppo larga. Stava seduto vicino al muro, masticava un panino e fissava il pavimento. Aveva il viso pallido, labbra sottili e occhi cerchiati. Lo sguardo era diffidente, come quello di un gatto randagio: sospettoso, pronto a scappare. Il giorno dopo c’era di nuovo. E poi ogni volta. Gli portavo un succo, un quaderno, un berretto. Lui non parlava. Solo annuiva. A volte mi fissava, come per capire perché lo facessi. Come se avesse dentro un allarme: non lasciare avvicinare nessuno.
Dopo due settimane, si è seduto accanto a me. Lentamente. Esitante. Ci si siede così quando non si è più abituati alla vicinanza.
“Hai perso anche tu qualcuno?” ha chiesto, guardando dritto davanti a sé.
Ho trasalito. Prima per la domanda inaspettata. Poi per quello che davvero significava. Ho aspettato prima di rispondere. Come se avessi paura di dire ad alta voce ciò che mi portavo dentro da un anno.
“Mio fratello. E tu?”
“Mia madre. Tre anni fa. Dormivo, lei è uscita e basta.”
L’ha detto con calma. Come se raccontasse la trama di un cartone. Senza tono. Senza rimpianti. Poi si è alzato e se n’è andato. Senza salutare. Ma senza respingermi. Come fanno quelli abituati a essere dimenticati in fretta.
Da allora ci sedevamo insieme. Quasi sempre in silenzio. Lui a volte disegnava – a matita, sul bordo di un giornale vecchio. Io leggevo – non forte, ma con una concentrazione che mi faceva scorrere gli occhi sulle righe. A volte guardavamo i treni partire. Uno dopo l’altro. Come un respiro. Lento, senza fretta, come se la vita stessa scorresse al ritmo delle partenze.
A volte faceva domande brevi: “Sei un dottore?” – “Sei sempre da sola?” – ma distoglieva lo sguardo subito dopo. Io non insistevo. Non invadevo il suo silenzio. Sentivo in lui la paura di fidarsi – fragile, come un uccello sul filo.
Non gli ho mai chiesto dove dormisse. Non perché non volessi sapere. Ma perché sentivo che, se avesse voluto, me lo avrebbe detto. E forse era proprio questo la fiducia: stare vicini, senza chiedere nulla, se non la presenza.
Un giorno non è venuto. E nemmeno il giorno dopo. Ho cercato tra la folla, scrutando i volti come si fa con chi ci manca – dalla sagoma, dal modo di camminare, da qualcosa di indefinibile. Ho chiesto alla sicurezza, mostrato una foto sul telefono. Mi hanno trattato come una pazza. “Qui passano tantissimi ragazzi. Ognuno ha la sua storia” – come se non fossero vite, ma numeri.
Dopo una settimana l’ho trovato. Nel sottopassaggio. Sdraiato su un cartone, avvolto in quella giacca che gli avevo regalato. Gli occhi aperti, ma lo sguardo spento. Le labbra screpolate, il respiro sottile. Respirava ancora. Ma a fatica. E quel respiro – debole, irregolare – mi ha spezzato qualcosa dentro. Perché nessuno, neanche il più forte, dovrebbe respirare così, da solo.
All’ospedale è rimasto quattro giorni. All’inizio incosciente, con la flebo nel braccio magro e la coperta che scivolava sempre. Le infermiere dicevano che la febbre non scendeva, ma il suo cuore era testardo. Io non mi sono mossa. Gli leggevo, anche se sapevo che non mi sentiva. O forse sì, ma non poteva rispondere.
Poi ha aperto gli occhi e ha detto:
“Pensavo che non saresti venuta.”
La voce era roca, come se venisse da un luogo dove non si parlava da tempo. Gli ho stretto la mano forte, non solo per calmare lui, ma anche me.
“Verrò sempre,” ho detto. “Sempre. Anche se taci. Anche se non mi chiami.”
Un mese dopo, ho iniziato le pratiche per l’affido. Non subito. Ho avuto paura, dubbi. Ho riletto i documenti mille volte, ho chiamato amici, l’ho guardato dormire sul divano – chiedendomi se avevo il diritto di decidere per due. Poi ho capito: lui era la mia possibilità. Non casuale, ma conquistata. La possibilità non solo di aiutare, ma di essere necessaria. Non di riempire il vuoto, ma di trovare un senso. Non ha sostituito mio fratello. Non avrebbe potuto. Ma era diventato qualcuno che mi guardava ogni mattina aspettandosi qualcosa. Qualcuno che per primo diceva: “Buongiorno”. Che mi chiedeva: “Hai sorrisE ora, quando lo vedo addormentarsi sul divano con quel suo plaid orso e la tazza sbeccata sul tavolo, so che anche se il mondo continua a perdere pezzi, noi abbiamo trovato un posto dove stare, almeno per stanotte.