La porta socchiusa
Quando Luisa tornò dal supermercato, la porta di casa era leggermente aperta. Non spalancata, solo non chiusa del tutto. Lo spiraglio tra la porta e lo stipite sembrava curato, come se qualcuno avesse scelto con attenzione proprio quell’angolazione. Come se avesse varcato la soglia, osservato per un attimo, esitato—e poi fosse uscito, senza il coraggio di restare. O forse, al contrario, fosse ancora lì dentro.
Appoggiò le borse della spesa a terra e si fermò. Il cuore batteva piano ma veloce. Nessun rumore, nessun passo. Solo silenzio e una lieve corrente che muoveva l’angolo del tappeto nell’ingresso. E poi—un odore sottile, estraneo alla sua casa. Tabacco? O semplicemente l’aria della strada? Inspirò, ma già il profumo era svanito.
Viveva da sola da tre anni. Da quando Alessandro se n’era andato—prima in un appartamento in affitto, poi in un’altra città, infine in un’altra vita. Le aveva scritto due volte. La prima per ritirare una felpa, la seconda per annunciare che si sarebbe sposato. Lei non aveva risposto. Non per rancore. Solo perché non sapeva cosa dire quando non ti chiedono più nulla. Dentro di sé, tutto ormai era diventato piatto, come un vetro coperto di neve: tracce indistinte, senza forma.
Entrò lentamente, scrutando il corridoio. Tutto era al suo posto. La giacca sull’attaccapanni, l’ombrello nell’angolo, le lettere sulla mensola. Nessun segno di confusione, nessun tappeto spostato. Tutto normale, eppure tutto diverso. Chiuse la porta, mise il chiavistello e attivò l’allarme. La lucina verde la rassicurò un poco. Anche se, se qualcuno avesse voluto, sarebbe già scappato. Eppure, le rimase un’inquietudine, come un’ombra alle spalle.
In cucina, tutto era come lo aveva lasciato al mattino. Il fornello spento, la tazza nel lavandino, il libro sul davanzale aperto a metà. Un segno piegava l’angolo della pagina. Era sicura di aver usato un segnalibro. Forse si sbagliava, o forse qualcuno l’aveva sfogliato. L’aria stessa sembrava diversa. Come spostata di un soffio, come se qualcuno avesse attraversato la stanza e svanito, lasciando un vuoto appena percettibile. Non paura—solo l’impronta di una presenza.
Tornata nell’ingresso, notò finalmente: sul mobiletto c’era una vecchia fotografia. Non incorniciata, solo un ritaglio sbiadito, con un angolo ripiegato. Luisa si chinò. Era quella foto che aveva nascosto in un cassetto anni prima. Lei e Alessandro. Dieci anni fa. Lui la abbracciava da dietro, mentre lei rideva. Uno scatto rubato durante una scampagnata con gli amici. Allora, tutto sembrava eterno. Ora, sembrava ritagliato da un altro tempo. E qualcuno l’aveva lasciata lì, non per caso.
La foto era posata con cura. Non poteva essere caduta da sola. Qualcuno l’aveva presa, guardata, rimessa là. Ed era andato via. O no? Luisa scrutò il vuoto, come cercando un’eco tra le pareti. Non aveva nascosto quella foto per rabbia—semplicemente non sopportava più di vederla. E ora era lì, esposta. Una sfida, o una richiesta?
Seduta sul divano, prese il telefono. Scorse le chiamate recenti. Niente. Nemmeno messaggi. Solo notifiche del supermercato e della banca. Parole asettiche, senza vita.
Si alzò e chiuse la porta del balcone—il vento giocava ancora tra le tende, accarezzandole piano. La sera scivolava verso la notte, quando improvvisamente il campanello suonò. Un solo squillo. Deciso. Come se qualcuno fosse certo che avrebbe sentito.
Luisa si avvicinò. Guardò dallo spioncino. Nessuno. Solo la scala deserta e la luce fioca del lampadario. Ma sul tappeto, davanti alla porta, c’era quella coperta arrotolata. La loro coperta. Blu, con le strisce bianche. Sembrava quasi nuova, anche se l’avevano portata ovunque—in spiaggia, in campeggio, stesa al sole nella casa al mare. Ne ricordava la ruvidezza, l’odore. E le risate dopo le litigate stupide, mentre la lavavano insieme.
Sopra la coperta, un biglietto. Tre parole:
«Scusa, non ce l’ho fatta.»
La carta era piegata male, frettolosamente. La grafia era la sua. Lo riconobbe subito, dalle «p» angolose e dalle «t» inclinate. Come se fosse arrivato fin lì, ma non avesse avuto il coraggio di suonare una seconda volta. O forse sapeva che avrebbe capito.
Rimase immobile. Guardò la porta, la coperta, la sua mano che tremava. Frammenti di ricordi le attraversarono la mente: la sua partita, il tintinnio delle chiavi nella ciotola, il silenzio che l’aveva terrorizzata dopo. Poi prese la coperta, la portò dentro e la aprì con delicatezza. Dentro, c’era una chiave. La sua vecchia chiave, quella che lui non le aveva mai restituito. Liscia, con un graffio alla base—lo ricordava bene, come una cicatrice.
Spense l’allarme. Rimise la chiave nella coperta. Rimase a fissarla per qualche istante, come fosse un simbolo di qualcosa lasciato in sospeso. Poi tornò alla porta e, piano, quasi senza far rumore, la lasciò socchiusa.
Per ogni evenienza. O per quel barlume di possibilità che ancora restava.
*Oggi ho imparato che certe porte non si chiudono mai davvero.*