Porta Aperta

Porta Socchiusa

Quando Giulia tornò dal supermercato, la porta di casa era leggermente aperta. Non spalancata, ma nemmeno chiusa del tutto. Lo spiraglio tra la porta e lo stipite sembrava volutamente preciso, come se qualcuno avesse scelto con cura quell’angolazione. Come se fosse entrato, avesse osservato intorno, si fosse fermato un attimo—e poi fosse uscito, senza il coraggio di restare. O forse, al contrario, fosse ancora lì dentro.

Posò le buste della spesa a terra e rimase immobile. Il cuore batteva piano ma veloce. Nessun rumore, nessun passo. Solo silenzio e una lieve corrente che muoveva l’angolo del tappeto nell’ingresso. E poi—un odore appena percettibile di qualcosa di estraneo, fuori posto nella sua casa. Tabacco? O semplicemente l’aria della strada? Tese l’orecchio, ma l’odore svanì.

Viveva da sola da tre anni. Da quando Riccardo se n’era andato—prima in un appartamento in affitto, poi in un’altra città, infine in un’altra vita. Le aveva scritto due volte. La prima per farsi ridare un maglione, la seconda per dirle che si sarebbe sposato. Non aveva risposto. Non per rabbia. Semplicemente non sapeva cosa dire quando nessuno ti chiede più niente. Dentro, tutto era ormai svanito—restava solo una superficie piatta, un po’ malinconica, come un vetro appannato: forse c’erano tracce, ma indistinguibili.

Entrò lentamente, osservò il corridoio. Tutto al suo posto. La giacca sull’attaccapanni. L’ombrello nell’angolo. Le lettere sulla mensola. Nessun segno di disordine, nessun tappeto spostato, nessuna scarpa fuori posto. Tutto come sempre, eppure tutto diverso. Chiuse la porta, la girò con la chiave e attivò l’allarme. La lucina verde la tranquillizzò un poco. Se qualcuno avesse voluto, ormai sarebbe già scappato. Eppure—quella sensazione rimaneva, come un’eco alle spalle.

In cucina, tutto era come lo aveva lasciato la mattina. Il gas spento. La tazza nel lavandino. Il libro sul davanzale, aperto a metà. Un segno sulla pagina. Era sicura di aver usato un segnalibro. Forse no. O forse qualcuno l’aveva sfogliato. O solo guardato. Ma l’aria era cambiata. Come se qualcuno l’avesse attraversata in punta di piedi, lasciando un vuoto sottile. Non paura—piuttosto l’impronta di una presenza estranea.

Tornò nel corridoio e solo allora lo notò: sul mobiletto c’era una vecchia fotografia. Non incorniciata—solo un ritaglio. Sbiadito, con un angolo piegato. Giulia si chinò. Era una foto che aveva nascosto in un cassetto anni prima. Lei e Riccardo. Dieci anni fa. Lui la abbracciava da dietro, lei rideva. Scattata da un amico, durante una gita. Allora tutto sembrava solido, quasi eterno. Ora—come ritagliato da un altro tempo. E qualcuno l’aveva lasciata lì non per caso.

La foto era posata con precisione. Non poteva essere caduta da sola. Qualcuno l’aveva presa. Guardata. Riposta. E se n’era andato. O no? Giulia si guardò intorno, come se nelle pareti ci fosse ancora l’eco della sua ombra. Quella foto non l’aveva nascosta per rancore—semplicemente non riusciva più a guardarla. Ora era lì, esposta, quasi una sfida. O una richiesta.

Si sedette sul divano. Prese il telefono. Scorse le chiamate recenti. Niente. Messaggi—vuoto. Nessuna traccia di lui, né di altri. Solo notifiche di consegne e del conto corrente. Righe asettiche, senza una parola vera.

Si alzò e chiuse la porta del balcone—il vento continuava a girare per casa. Muoveva la tenda, lieve, come una carezza. La sera sfumava nella notte. E all’improvviso—un suono squarciò il silenzio. Un campanello. Un solo squillo. Netto. Come se qualcuno fosse certo che l’avrebbe sentito.

Giulia si avvicinò. Guardò dallo spioncino. Nessuno. La tromba delle scale vuota, il silenzio, la luce fioca della lampadina. Solo, sul tappeto all’ingresso—quella coperta arrotolata. La loro. Blu, con strisce bianche. Sembrava quasi nuova, anche se l’avevano portata ovunque, stesa sulla sabbia, lasciata ad asciugare al sole durante le vacanze. Ne ricordava l’odore, la ruvidezza. Ricordava quando si coprivano insieme in tenda. L’ultima volta che l’avevano lavata insieme, litigando per il detersivo e ridendocene subito dopo.

Sopra la coperta, un biglietto. Solo tre parole:

«Scusa, non ce l’ho fatta».

La carta era piegata male, di fretta. La calligrafia—la sua. Lo riconobbe subito, dalle “p” angolose e dalle “t” storte. Come se fosse arrivato fino a lì, ma non avesse avuto il coraggio di suonare di nuovo. O forse sapeva che avrebbe capito lo stesso.

Rimase ferma. Guardò la porta, la coperta, la sua mano che tremava. Frammenti di ricordi le passarono nella mente: lui che se ne andava, il tintinnio della chiave nella ciotola metallica, il silenzio che poi la spaventava. Prese la coperta, la portò dentro e la dispiegò con delicatezza. Dentro c’era una chiave. La sua vecchia chiave, quella che lui non le aveva mai restituito. Liscia, con un graffio alla base—lo ricordava bene, come una cicatrice su qualcosa che era stato di entrambi.

Giulia disattivò l’allarme. Rimise la chiave nella coperta. Rimase qualche secondo a fissarla, come un simbolo di qualcosa di incompiuto. Poi si avvicinò alla porta e, lentamente, senza far rumore, la lasciò socchiusa di nuovo.

Per ogni evenienza. O nel caso ci fosse ancora una possibilità.

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