Ciao, Mamma!

«Buongiorno, Mamma!»

Il taxi sfrecciava silenzioso sull’asfalto bagnato dalla pioggia autunnale. L’anziano autista guidava con calma per le vie familiari della città, mentre dalle ciglia appannate di pioggia lanciava occhiate discrete allo specchietto, osservando i passeggeri.

Tra le braccia di una giovane donna dormiva un bambino di sei mesi, e quel dettaglio lo aveva lasciato turbato quando avevano pronunciato la destinazione: un orfanotrofio.

I genitori sembravano una coppia felice: lui, alto e imponente, indossava l’uniforme di tenente dell’Aeronautica Militare; lei aveva occhi azzurri come il mare e capelli biondi che le cadevano morbidamente sulle spalle.

«Marco, i fiori!» gli ricordò lei con un sorriso.

«Lo so, Elisabetta, lo so» rispose lui, poi si rivolse all’autista: «Fermi al fioraio, per favore».

Il militare scese e, incurante del vento, entrò nel negozio. L’autista lo seguì con lo sguardo e poi chiese alla donna:

«Suo marito?»

«Mio marito» confermò lei, aggiustando con dolcezza la cuffietta del bambino.

«Il piccolo è bellissimo, e voi due sembrate una famiglia solida. Perché l’orfanotrofio?» domandò l’uomo con un tono quasi accusatorio.

La giovane madre rimase confusa, ma quando capì l’insinuazione, gli occhi le si spalancarono in un misto di orrore e incredulità.

«Cosa pensa? Che…?»

«Eh, in questi tempi si vedono cose strane…» mormorò l’autista, prima di aggiungere più gentilmente: «Ma allora, perché andate lì?»

«Ci sono cresciuta. Sette anni, poi sono stata adottata. E mio marito, Marco, ne ha passati quattro là dentro».

«Da Suor Angela?» L’autista sorrise. «Ecco perché! E siete appena arrivati in città e siete già corsi da lei? Bravi!»

«La conosce?» chiese la donna incuriosita.

«Ma chi non la conosce!»

Stava per iniziare un lungo racconto quando la portiera si aprì e un magnifico mazzo di rose rosse riempì l’abitacolo.

«Elisa, guarda che meraviglia hanno solo qui!» disse Marco con orgoglio.

«Dio mio!» esclamò Elisabetta, «Non mi hai mai regalato rose così belle!»

«Non offenderti, tesoro» si scusò lui. «Ti dico, queste crescono solo qua! E poi… quand’è stata l’ultima volta che siamo venuti qui insieme?»

«Insieme? Undici anni fa…»

Suor Angela era seduta al tavolo del suo ufficio, avvolta in uno scialle di lana. Nonostante il caldo dei termosifoni, le piaceva la morbidezza di quella stoffa che le cullava le spalle.

Aveva un attimo di pace: i più grandi erano a scuola, i piccoli nella loro ora di riposo. Nel silenzio dell’orfanotrofio, solo il tintinnio delle pentole in cucina annunciava il pranzo in preparazione.

Con le dita tremanti, sfogliava un album di foto. Volti di bambini, ragazzi, uomini e donne. Li ricordava tutti, anche quelli cresciuti. Li chiamava ancora come un tempo: «Michellino», «Lucietta», «Sandro»…

Poi, una foto di Elisabetta Ferrara, no… ora era Conti. Un uomo buono, Antonio Rossi, l’aveva adottata quindici anni prima…

E Marco… dov’era finito, Marco? Aveva frequentato l’Accademia Militare, poi la scuola di volo. Ecco la sua foto in divisa. Da piccolo sognava di fare il veterinario, come il dottor Lorenzo. Che birbante, ma con un cuore d’oro…

Passi sommessi nel corridoio. Un bussare alla porta.

«Avanti!»

Dio santo! Un mazzo di rose enorme! E chi c’era dietro?

«Marco! Marco, tesoro mio!» Le rose caddero a terra. «Dov’eri finito, piccolino?»

«Suor Angela, eccomi qua. Non ho scritto, lo so… ma non è sempre stato possibile. Non sono solo. Mia moglie… e mia figlia. Laura».

«Elisabetta… Elisabettina! Sei proprio tu? Prendi la bambina, Marco! Lasciaci abbracciare!»

Quando l’emozione si placò, i visitatori si tolsero i cappotti, sistemarono la piccola addormentata sul divano e si sedettero intorno al tavolo.

«Come avete fatto a restare uniti, dopo tanto tempo? Antonio mi parlava sempre di te, Marco. Diceva che eri un ragazzo di parola».

«Ho mantenuto la promessa, Suor Angela. Quando do la mia parola, non la ritiro».

«Già sentita, questa frase» rise bonaria la donna. «Elisabetta, e tu? Com’è andata?»

«Felice!» rispose lei, con occhi sinceri. «Mi sono laureata in medicina, insieme ai miei fratelli, Matteo e Luca. E sa che nessuno osa farmi del male con quei due in giro! Ora sono pediatra, come papà. E Marco… anche lontani, siamo sempre stati vicini. E questa è Laura… il nome non era neanche in discussione».

«Ciao, Laurina» sussurrò Suor Angela, chinandosi sulla bimba. «Che Dio ti benedica. E tuo nonno l’ha già vista?»

«Non ancora» ammise Elisabetta, colpevole. «Siamo venuti prima da lei…»

«Chiamatelo. Avvertitelo, per l’amor di Dio! Altrimenti ad Antonio e Maria potrebbe scoppiare il cuore dalla gioia». La suora rivolse a Marco un sorriso furbo:

«E adesso saluta Mamma. Ti sta aspettando da un bel po’».

Marco si voltò e si bloccò. A un metro da lui, una gatta tricolore lo fissava senza batter ciglio. Un nodo gli serrò la gola, come quella volta, da bambino, nella vecchia casa abbandonata dove l’aveva trovata.

La gatta socchiuse lentamente gli occhi, si alzò e gli si avvicinò. Saltò sulle sue ginocchia, si sollevò sulle zampe posteriori e poggiò quelle anteriori sulle spalline della divisa. Poi strofinò il muso contro la sua guancia, facendo le fusa.

«Mamma… Mammolina» sussurrò Marco, seppellendo il viso nel suo pelo morbido. «Non ti ho mai dimenticata. Senza di te…»

«Ha cresciuto metà di questi bambini» spiegò Suor Angela. «Tutti la ricordano. L’anno scorso, quando si ammalò… l’intero orfanotrofio si radunò fuori dalla clinica del dottor Lorenzo mentre la operava. Fortuna che è andato tutto bene…»

Sul divano, Laura si agitò e fece un piccolo lamento. La gatta, quasi per chiedere scusa, saltò giù e si accoccolò accanto a lei. Le fusa calmarono la piccola.

«Presto io e lei andremo in pensione» sospirò Suor Angela. «È ora. Antonio ha già mandato il suo Fratello a riposare. Ora se ne sta al caldo accanto al termosifone. Tocca anche a noi…»

«Fratellino… quanto mi manca!» sorrise Elisabetta.

Rimasero fino a sera, pranzando con i bambini. I ragazzi circondarono Marco, chiedendogli storie di voli e missioni. Quasi tutti volevano diventare piloti.

«Non è facile, piccoli» li ammonì lui. «Ma se avete un sogno, tenetevi stretto a quello. E poi… non serve essere piloti. Basta diventare brave persone, quelle di cui Suor AngelaMentre il sole tramontava tingendo di rosa le mura dell’orfanotrofio, Marco strinse la mano di Elisabetta, promettendo che sarebbero tornati presto, perché nessun luogo al mondo aveva insegnato loro l’amore come quella casa piena di risate e di gatti che vegliavano sui sogni dei bambini perduti.

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