**Diario di Matteo**
Trovò una spalla più calda
— Aspetta un attimo! Lui ha speso i miei soldi, e ora devo pure dargliene altri? Ma da quando?
— È tuo padre! — sbottò mia madre.
Elena alzò le sopracciglia così in alto che la fronte sembrava un fisarmonica. Mia madre la fissava incrociando le braccia. In cucina faceva un caldo asfissiante, proprio come la tensione tra loro.
— Mio padre mi ha lasciato metà appartamento. Quell’uomo per me è uno straniero — rispose Elena con calma.
— Ma devi capire — obiettò Gabriella. — Vive qui da dieci anni. Ha contribuito anche lui, ha fatto quello che poteva.
Elena sbuffò, trattenendo a stento una risata amara.
— Contribuito? Quando mai, mamma? Quando stava ai fornelli a farmi la lezione su come friggere le patate per lui, anche se non sapeva nemmeno fare una frittata?
— Non in senso economico, forse — borbottò mia madre. — Ma fa parte della famiglia. Lo chiamavi anche tu papà.
Elena fissò i magneti sul frigo, quelli vecchi con le immagini delle città visitate durante i viaggi con papà. A un certo punto, la collezione smise di crescere. Quando Vittorio si installò in casa, i viaggi finirono.
— L’ho chiamato così una volta, per non farti soffrire — ammise Elena piano. — Avevo quattordici anni. E lui l’ha usato come un trofeo.
Le tornò in mente un ricordo doloroso: tornava a casa, umiliata e furiosa. Tutti erano andati al cinema, ma a lei non fu permesso. Vittorio aveva detto che «una ragazza deve stare a casa, non andare in giro».
— Perché? Vanno tutti! Anche io voglio andare!
— Ascolta, Elena. Ai miei tempi, i bambini non discutevano con i genitori. Per certe cose ci prendevamo le sculacciate.
Non aveva alzato la voce, ma le parole le restarono in gola fino a notte. Non pianse, ma rimase sdraiata sul letto, ascoltando lamentarsi nella stanza accanto.
— L’hai viziata. È cresciuta una principessa. Soldi buttati, senza risultati. Ai miei tempi… — diceva a mia madre.
Elena strinse i pugni. Era solo l’inizio. Poi vennero le altre critiche: che era «sciatta», che «mangiava troppo», che «parlava a sproposito». A volte la comandava come una serva in una casa dove lui era il padrone.
Ma Elena capì: si sfogava su di lei. Al lavoro nessuno lo ascoltava, e lui stesso ci andava di malavoglia. Ma a casa poteva alzare la voce, sbattere i pugni sul tavolo, fingere di contare qualcosa.
— Mamma — riprese Elena, tornando al presente. — Metà appartamento è mio. Per legge. Ti ricordi? Vittorio non è nei documenti.
— Elena, non capisci. Se vendiamo e dividiamo solo tra noi due, Vittorio… lo prenderà come un tradimento. Ti considera quasi una figlia.
— Ah, sì? Vediamo. E se io vendessi la mia parte a qualcuno, e lui dovesse dividere la cucina con questo «quasi-papà», sarebbe ancora tradimento?
Gabriella tacque, chiuse gli occhi. Le labbra tremarono. Aveva paura di restare sola.
— Vive qui da anni — sussurrò. — Ci ha messo l’anima. Non lo senti?
— Sento che se non difendo ciò che è mio ora, nessuno lo farà. E sento che, così facendo, un giorno diventerò come te. Avrò un uomo sulle spalle e mi lamenterò con i miei figli.
Se ne andò. Non poteva più stare in quella casa estranea, accanto a una madre che non la ascoltava. Fuori, la primavera iniziava. I bambini mangiavano il gelato, qualcuno batteva i tacchi. La vita continuava, come se in quell’appartamento al quinto piano non ci fosse stato un terremoto personale.
Dopo quella discussione, Elena non chiamò per una settimana. A che serve parlare con chi ripete solo l’eco altrui?
Si concentrò sulla vendita. Un agente immobiliare le trovò un acquirente: un uomo appena divorziato, educato, discreto. Persino Gabriella non fece scenate.
Ma poi arrivarono i messaggi vocali:
— Elena… non stai vendendo solo una casa. Stai vendendo la famiglia.
Per un attimo, si sentì in colpa. Aveva ragione? Affittare era difficile, ma vivere con loro?
Chiamò suo padre. Lui, ormai lontano, con una nuova famiglia, ascoltò.
— Quell’appartamento era per te, non per tua madre. Per darti un inizio.
Lei non sapeva. Credeva fosse metà.
— Allora ho ragione?
— Sei adulta. Agisci con la testa, non per rancore.
Dopo, si sentì più leggera. Ma un altro ricordo tornò: quando lavorava per mantenersi. Un giorno comprò yogurt, formaggio, un po’ di salume. Li mise in frigo.
Al mattino, trovò solo uno yogurt. Vittorio, seduto in cucina, mangiava patate fritte e beveva latte dalla bottiglia.
— Hai preso la mia roba?
— È nostra, siamo famiglia. Finché vivi qui, devi condividere.
Da allora, smise di comprare cibo extra. Ma le richieste continuarono. Gabriella chiedeva soldi per la «spesa», anche quando il detersivo era appena comprato.
Ora tutto era diverso. Elena firmò, ringraziò l’agente e uscì con un vuoto nuovo dentro.
Non chiamò Gabriella. Neanche lei. Il silenzio fu naturale.
Ci vollero due settimane per ritrovarsi. Si comprò lenzuola nuove, si concesse un massaggio, cercò un monolocale. Un posto dove nessuno l’avrebbe rimproverata per un armadio sbattuto.
Passarono mesi. Se non fosse stata la nonna, non avrebbe saputo che Gabriella aveva venduto. Vittorio, finiti i soldi, l’aveva lasciata per un’altra.
— Dice che hai distrutto la famiglia — sussurrò la nonna. — Che avresti dovuto sopportare.
— Sopportare? Io non l’ho mai disturbata abbastanza per il suo uomo.
La nonna non replicò. Poi cambiarono argomento, ma Elena sapeva che la verità era chiara.
Il giorno dopo, passeggiando, vide un’agenzia immobiliare. Si fermò, guardò le foto, strinse le chiavi in tasca.
Ora nessuno le diceva come tagliare il pane. Nessuno frugava nei suoi armadi. Quanto a sua madre… aveva scelto da sola le priorità.
**Lezione:** a volte, la libertà costa. Ma vale ogni centesimo.