Tre lettere senza ritorno
Era tutto silenzio, neanche un alito di vento, né il fruscio delle foglie, né il canto degli uccelli. Pareva che anche la natura si fosse fermata in un eterno riposo. Anche le persone stavano in silenzio attorno alla bara aperta e alla fossa scavata accanto. Mariuccia teneva il padre sotto braccio. Lui era lì, smarrito, curvo, fissando la mamma con occhi pieni di dolore.
Poco distanti c’erano gli amici dei genitori: Margherita e suo marito Vincenzo. Mariuccia li conosceva da sempre e li chiamava per nome. Margherita si asciugava spesso le lacrime col fazzoletto, mentre suo marito guardava oltre la bara, verso l’orizzonte. Di fronte a Mariuccia e al padre, tre colleghi della mamma, col naso arrossato e gli occhi gonfi. E poi altre facce sconosciute. Ma se erano lì, significava che la mamma li aveva conosciuti.
Nessuno si avvicinava più per salutare, per dire una parola di conforto. Tutto era già stato fatto in precedenza. Ora restavano solo ad aspettare la fine della cerimonia.
Mariuccia incrociò lo sguardo di uno dei becchini. Lui, come se avesse aspettato solo quel segnale, chiese con un cenno: «Possiamo?» Lei annuì appena. I due si mossero, presero il coperchio appoggiato a un albero e si avvicinarono alla bara.
«Tutti hanno salutato? Chiudiamo», disse il più anziano.
Ma allora una voce bassa, ma ferma, si fece sentire:
«Aspettate!»
Tutti si voltarono verso chi aveva parlato. Un uomo alto e imponente, avvolto in un lungo cappotto nero e con un cappello a larghe tese, si avvicinò alla bara. I becchini tennero il coperchio sollevato mentre l’uomo depose due rose bianche e posò una mano su quelle della mamma, come per scaldarle. Rimase così per qualche minuto, mentre gli altri lo osservavano, cercando di capire chi fosse. Uno dei becchini tossì, spazientito. Lo sconosciuto si ritrasse e fece un passo indietro. Finalmente, la bara fu chiusa, fissata con viti agli angoli e calata nella fossa. Mariuccia fu la prima a gettare una manciata di terra.
Mentre i becchini riempivano la fossa, Mariuccia cercò con lo sguardo l’uomo col cappello, ma era sparito. Quando la lapide e le corone furono sistemate, la gente iniziò a disperdersi. Mariuccia e il padre restarono ancora un po’, soli davanti alla tomba.
«Papà, andiamo», disse lei, e lui si lasciò guidare via.
Per tutto il tragitto, Mariuccia si chiese chi potesse essere quell’uomo. Era arrivato in silenzio e sparito nello stesso modo. Aveva il viso nascosto dal cappello, ma aveva notato un mento ben rasato e forse degli occhiali, anche se su quelli non avrebbe giurato.
Il pranzo funebre fu organizzato in un bar vicino a casa. A Mariuccia non andava giù nulla. Era stremata e voleva solo che tutto finisse. Alla fine, gli ospiti se ne andarono. Lei e il padre furono gli ultimi a uscire. Mariuccia continuava a reggerlo, mentre con l’altra mano stringeva al petto il ritratto della mamma in cornice, uguale a quello lasciato sulla tomba.
«Come stai?» chiese a suo padre.
Lui annuì appena.
«Papà, chi era quell’uomo alla tomba?» domandò lei.
«E come faccio a saperlo?»
Nella sua voce, Mariuccia colse una nota di fastidio. Tornarono a casa in silenzio. L’appartamento odorava di medicine e malattia, nonostante avesse lasciato le finestre aperte.
Il padre si sdraiò subito sul divano e chiuse gli occhi. Lei lo coprì con una coperta e si sedette accanto a lui.
Guardò la porta della stanza dove la mamma aveva passato gli ultimi giorni. «Ha smesso di soffrire», ripeté tra sé e sé, ricordando le parole di quasi tutti quelli alle esequie. Avevano smesso di soffrire tutti. La mamma, per quella malattia terribile. Lei, per la tensione costante, l’ansia, l’attesa della fine. Il padre, per l’impotenza di non poter far niente.
Le salirono le lacrime agli occhi. Mariuccia andò in cucina, appoggiò la testa sulle braccia incrociate e pianse in silenzio.
Col tempo, il dolore si attenuò. Mariuccia ripulì la stanza della mamma da ogni traccia della malattia. Continuò ad andare all’università, ma si sentiva vuota e sola.
Il padre non apriva bocca, camminava trascinando le pantofole come un vecchio. Quel rumore e quel silenzio la irritavano. Con il suo comportamento, mostrava quanto fosse difficile per lui. E a lei, forse, era andata meglio? Aveva perso la mamma. E ora tutto il peso della casa e di suo padre ricadeva sulle sue spalle.
«Papà, cosa facciamo con i vestiti della mamma? A me non vanno bene», chiese un giorno, solo per farlo parlare.
«Non lo so. Dalli a qualcuno.»
Facile a dirsi. Ma a chi? Un weekend si mise a sistemare le cose della mamma. Quello che era ancora buono lo mise da parte, il resto lo ammucchiò e portò al cassonetto. Non le dispiaceva buttarlo, le sembrava quasi un sollievo.
Le scarpe della mamma non le andavano, erano troppo grandi. Le lasciò vicino ai bidoni, nel caso servissero a qualcuno. In una scatola, però, trovò un paio di scarpe bianche nuove di zecca. Non se la sentì di buttarle. Le provò: troppo larghe. Mentre le rimetteva via, vide in fondo alla scatola tre lettere ingiallite, di vent’anni prima. Due indirizzate alla mamma a un mese di distanza, la terza due anni dopo. Tutte e tre senza mittente.
Perché la mamma le aveva nascoste lì? Perché non le aveva bruciate? Leggere la posta altrui è sbagliato, ma la mamma non c’era più. Forse neanche chi le aveva scritte. Mariuccia continuava a sbirciare quelle buste mentre sistemava il resto.
No, non avrebbe avuto pace finché non le avesse lette. Se contenevano un segreto, dubitava che la mamma le avesse conservate. Forse non le aveva distrutte proprio perché un giorno qualcuno le avrebbe trovate. E poi, non erano nemmeno ben nascoste. E se le avesse dimenticate lì? Se nella scatola ci fossero state solo scarpe vecchie, Mariuccia le avrebbe buttate via senza pensarci. Insieme alle lettere.
Concluse che la mamma aveva messo quelle lettere sotto scarpe nuove apposta, perché lei le trovasse. Non poteva sapere che a sua figlia sarebbero state grandi. Senza più esitare, aprì la prima busta.
…Sei la mia felicità. Non sono ancora partito e già mi manchi, non trovo pace… Grazie per essere stata nella mia vita. Penso sempre a te, ti amo…
Chiaro. Una lettera d’amore da un uomo che aveva lasciato la sua amata.
Mariuccia passò alla seconda.
…Lo temevo, ma era prevedibile. Grazie per avermelo detto. Cosa vuoi fare?… Sai che sono sposato, non l’ho mai nascosto. Ho due figli… Non li lascerò, non posso, non ne ho il diritto. Tu sei giovane e bella, hai tutta la vita davanti. Non resterai sola, troverai qualcuno. Ma decidi tu… Se terrai il bambino, fammelo sapere, ti manderò dei soldi. Non fare la orgogliosa, non rimandarli indMariuccia chiuse gli occhi e sorrise, pensando che, nonostante tutto, la vita aveva ancora il dolce sapore della felicità che la mamma le aveva insegnato a riconoscere.