L’Enigma dell’Opera Misteriosa

La Tela Misteriosa

Giorgia sedeva sul sedile posteriore dell’auto e guardava fuori dal finestrino. Era di buon umore, come prima di una festa, di Capodanno o del suo compleanno. Ma il suo compleanno era a dicembre, e ora era luglio.

Al volante c’era un uomo imponente e severo. Giorgia vedeva solo la nuca rasata che si fondeva in un collo grosso. La nuca le sembrava sgradevole, antipatica. L’autista fissava la strada, senza mai voltare la testa, come se il collo troppo largo glielo impedisse. La bambina pensò che forse non era un uomo, ma un robot. Si sollevò un po’ per sbirciargli il viso.

“Stai seduta!” le intimò lui, senza girarsi.

Giorgia ricadde sul sedile e riprese a osservare il paesaggio. Campi, boschi, paesi che sfilavano veloci. Superarono due ciclisti, un uomo e un ragazzino, che la guardarono attraverso il vetro. Il suo umore migliorò di nuovo. Era la prima volta che andava in un’altra città, dai nonni che non aveva mai conosciuto.

“Quanto manca ancora?” chiese.

“No,” rispose la madre dal sedile anteriore.

“Perché non siamo mai venuti prima dai nonni?”

La madre borbottò qualcosa di incomprensibile.

“C’è un fiume lì?”

“Ce n’è uno. C’è tutto. Basta chiacchiere. Vedrai quando arriviamo.” Nella voce della madre si sentiva crescente irritazione.

Giorgia tacque. Ultimamente sua madre si arrabbiava per qualsiasi cosa, e se qualcosa non andava come voleva lei, iniziava a urlare. Era iniziato tutto quando suo padre se n’era andato. Aveva preso le sue cose ed era sparito.

“Presto arriveremo,” pensò Giorgia. “Forse è una vacanza, visto che la mamma ha portato così tante cose, perfino i miei giocattoli preferiti. E lo zaino di scuola… Perché lo zaino di scuola in vacanza?” Le domande erano tante, ma non osava farle alla madre.

Si appoggiò allo schienale e iniziò a canticchiare. Piano, una nota dopo l’altra…

“Smettila di lamentarti! Sei insopportabile,” la sgridò la madre. Giorgia tacque, accigliata.

Finalmente entrarono in città. La bambina si riavvicinò al finestrino. L’auto si fermò davanti a una casa di mattoni a due piani.

“Siamo arrivati. Casa dolce casa,” disse la madre aprendo la portiera, ma senza alcuna gioia.

La casa era vecchia, grigia, con due ingressi. Niente cortile, né scivoli o altalene di plastica colorata come nel loro palazzo. Solo due panchine vicino alle porte.

L’autista scaricò i bagagli e osservò la casa. La madre gli chiese di aspettare, prese le valigie e si diresse verso l’ingresso. Giorgia la seguì. La porta era di legno, verniciata di marrone scrostato, non di metallo con il codice.

“Apri,” disse la madre, irritata.

Giorgia corse avanti e spalancò la porta cigolante. Salirono al secondo piano. La madre posò la valigia per suonare il campanello, ma la porta si aprì da sola. Davanti a loro c’era una donna alta e severa. Non parlò, si limitò a fissarle.

La madre prese la valigia e varcò la soglia. Giorgia la seguì e subito si strinse a lei. Aveva capito che quella era la nonna.

“E allora, entrate,” disse la nonna, senza calore.
Giorgia non si mosse, incollata alla madre. Dall’interno uscì un uomo alto e canuto.

“Questo è tuo nonno, Antonio,” disse la madre. “Qui ci sono le sue cose, i giochi, le scarpe…” elencò piano.

“Ci penseremo noi,” rispose secca la nonna. “Non vuoi neanche un tè?”

“No, il taxi sta aspettando,” rispose la madre.

E Giorgia capì all’improvviso che sarebbe rimasta lì, mentre la madre sarebbe ripartita. Le si aggrappò, disperata:

“Mamma! Non andartene! Non lasciarmi qui! Portami con te!”

“Non gliel’hai detto?” chiese la nonna, rimproverandola.

La madre non rispose. Cercò di liberarsi, ma Giorgia si aggrappava come una cozza.

“Tornerò a prenderti. Per ora starai con i nonni. Basta!” urlò la madre, strappandosi via e spingendola indietro.

Le braccia della nonna la circondarono, stringendola. Giorgia si divincolò come un serpente.

“Vai… Vattene!” sbottò la nonna, e la madre scomparve dietro la porta.

“Mamma! Lasciami!” gridò Giorgia.

La nonna la lasciò andare, ma ormai era troppo tardi.

“Giorgia!” chiamò il nonno con voce calma.
Le si parò davanti, alto e diritto. Lei si raggomitolò, spaventata, ma lui sorrise con occhi buoni e curiosi.

“Andiamo,” disse, prendendole la mano e conducendola in salotto.

Mobili vecchi, un divano, un pianoforte. Era accogliente e silenzioso. Si sentiva solo il ticchettio dell’orologio a muro. Poi bevvero il tè con le crespelle. Giorgia non ne aveva mai mangiate di così buone. Più tardi, la nonna la portò fuori, dove due bambine giocavano. La lasciò con loro e rientrò.

“Abiterai qui ora?” chiese una delle due.

“No, la mamma tornerà a prendermi presto,” rispose sicura Giorgia, ma gli occhi le bruciavano.

Settembre arrivò, e la madre non si fece viva. Giorgia iniziò la scuola, nella stessa classe delle due bambine. Vivere con i nonni le piaceva. Non litigavano mai, non alzavano la voce, a differenza dei suoi genitori.

Negli ultimi tempi, i suoi genitori non parlavano, si limitavano a urlarsi. Poi il padre se n’era andato. La madre usciva spesso la sera. E Giorgia temeva che non sarebbe tornata. Restava alla finestra a fissare l’oscurità finché gli occhi le dolevano. Quando un taxi si fermava sotto casa e ne scendeva la madre, lei correva a letto, fingendosi addormentata. Il cuore le batteva forte: la mamma era tornata! Si calmava e si addormentava.

All’inizio le mancò, e l’aspettò a lungo. Poi smise. La nonna le disse solo una volta che si era “rifatta una vita”. Giorgia crebbe senza preoccupazioni. In terza media, la nonna si ammalò e morì. Per la prima volta, vide un uomo adulto piangere.

Rimase sola con il nonno. La nonna le aveva insegnato molte cose: fare le crespelle, dove comprare il cibo a buon prezzo. Dopo il liceo, Giorgia si iscrisse a un istituto tecnico. In città non c’erano università, e lei non poteva partire. Non voleva lasciare il nonno solo.

Un giorno, lui la condusse davanti a un quadro appeso al muro. Era dipinto in modo approssimativo, con figure geometriche confuse. Sembrava fuori posto tra i fiori degli sfondi e i mobili scuri. Giorgia non lo aveva mai chiesto, ma forse piaceva ai nonni. Non capiva di arte, ma sapeva che quel quadro non valeva nulla.

“Questa è la tua dote,” disse il nonno.

“Questo quadro?” si stupì lei.

“No, no. Sotto c’è un’icona. Vera, benedetta. Vale una fortuna. Se un giorno avrai bisogno, potrai venderla. Ma non a chiunque.” Le diedUn giorno, mentre puliva la soffitta, Giorgia trovò un vecchio giornale con un articolo che parlava di un’icona rubata anni prima, e capì che forse il destino aveva riportato sua madre al suo posto, non come ladra, ma come custode involontaria di una redenzione che nemmeno lei aveva cercato.

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