Eroe di un padre
Beatrice con un sacchetto della spesa saliva lentamente le scale fino al terzo piano, contando i gradini. Era una cosa che faceva spesso con suo figlio quando tornavano dall’asilo. Emanuele ripeteva ogni numero con attenzione, e dopo qualche mese già contava da solo. “Com’è cresciuto in fretta. Dio, fammelo tornare, fammi che sia vivo…” ripeté per l’ennesima volta, come una preghiera.
Al piano di sopra una porta sbatté, e i passi frettolosi di qualcuno risuonarono sulle scale. Beatrice si fermò sul pianerottolo tra il secondo e il terzo piano, facendosi da parte.
“Ciao!” la salutò vivacemente la quattordicenne Martina, la figlia dei vicini.
“Martina, ferma! Hai dimenticato il cappello!” gridò la madre da sopra.
La ragazzina tornò indietro a malincuore.
“Ma fa caldo. Smettila con questo cappello,” borbottò sottovoce.
La madre scese di corsa e infilò alla figlia un berretto di lana.
“Stasera farà freddo. Non tardare, mi hai sentito? Dopo la danza, vieni subito a casa.”
“Va bene,” rispose Martina, prendendo il berretto e scendendo velocemente.
“Non ‘va bene’, mettitelo!” le gridò dietro la madre.
“Ciao, Beatrice. Torni dal lavoro? Ecco, questa maledetta testarda, cerca sempre di uscire senza coprirsi, e poi si ammala,” si lamentò la vicina.
Salirono insieme le scale. Beatrice riprese a contare i gradini, ma la vicina la interruppe.
“E tuo figlio? Ti chiama?”
“No,” sospirò Beatrice.
“Eh, li cresci, li cresci, e poi se ne vanno, e a noi non resta che aspettare e preoccuparci. Con un figlio maschio hai paura, ma con una figlia è ancora peggio. Scappa e tu devi pensare a dove sia, con chi. E lei ha solo la danza in testa.”
Beatrice si fermò davanti al suo appartamento. Mentre cercava le chiavi nella borsa, la vicina scomparve dietro la sua porta. Entrò nell’ingresso e lanciò lo sguardo abituale all’attaccapanni. Ogni giorno sperava, con il cuore in gola, di vedere Emanuele tornare. Ma c’era solo la sua giacca leggera.
Appoggiò il sacchetto sul mobiletto delle scarpe e cominciò a togliersi il cappotto. Una volta, Emanuele correva ad accoglierla, pieno di novità.
“Aspetta, fammi togliere il cappotto,” gli diceva stanca. “Non toccare il sacchetto, è pesante.”
Poi era cresciuto, e lei doveva chiamarlo quando rientrava, chiedergli di portare la spesa in cucina e domandargli com’era andata a scuola.
“Tutto bene,” rispondeva svogliato, portava il sacchetto e spariva nella sua stanza.
Finita la scuola, si era iscritto all’università. Tornando dal lavoro, Beatrice ormai lo trovava raramente a casa. E lui condivideva sempre meno con lei.
“Forse dovrei prendere un gatto… almeno mi farebbe compagnia,” sospirò Beatrice. Ma ci pensava ogni volta per poi dimenticarsene. Mangiava in fretta e si sedeva davanti alla TV a guardare le notizie.
Cercava disperatamente tra i volti dei soldati in uniforme, le facce coperte a metà. Occhi diversi, ma lo stesso sguardo stanco, fermo, rivolto alla telecamera. I parenti avrebbero saputo che erano vivi. Forse uno di loro era suo figlio. Era sicura che l’avrebbe riconosciuto…
Quattro mesi prima
“Emanuele, sei a casa?” gridò entrando.
“Sì.” Uscì dalla sua stanza lentamente.
“Perché così presto?” chiese Beatrice, andando in cucina con la spesa. Lui la seguì. “Hai fame?” Mise il sacchetto su una sedia e cominciò a riordinare la spesa. Emanuele si sedette di fronte a lei.
“Perché non parli? È successo qualcosa?” s’interruppe, con una confezione di ricotta in mano.
“Sono sano come un pesce. Tutto bene, mamma.”
Ma l’espressione preoccupata di Emanuele non la convinse. Mise via la ricotta, piegò il sacchetto vuoto e lo ripose.
“Per domani faccio i pancakes con la ricotta,” disse, fissandolo intensamente.
“Siediti.” Indicò la sedia da cui si era appena alzata. Beatrice obbedì, ma il cuore cominciò a batterle forte.
“Mi stai spaventando. Cos’hai? Vuoi sposarti?”
“Mamma, parto per la missione.”
“C-come?” balbettò, come se avesse inciampato nelle parole. “Così all’improvviso? Non hai neanche fatto il militare…”
“Non subito. Non te l’ho detto prima. Prima c’è l’addestramento, e poi…”
“No,” scosse la testa. “Hai appena finito l’università, hai trovato un buon lavoro… E io? Hai pensato a me? Non ho nessuno, solo te. Non puoi farmi questo. Perché? Cos’è successo?”
“È successa la guerra, mamma. Non posso stare a guardare. Sono forte, ho le capacità.”
“Non sei un uomo, sei un ragazzo. Hai solo ventitré anni…”
Ma lo sguardo deciso di Emanuele la zittì. Le lacrime le annebbiarono la vista, il volto del figlio le sfumò davanti. Si asciugò gli occhi.
“Quando parti?” Le gocce le scendevano sulle guance.
“Domani. Mamma, mi dispiace, ma non posso restare mentre gli altri…”
Si alzò di scatto, lo abbracciò forte.
“Non ti lascio andare…”
“Ho deciso così.” Con uno sforzo, Emanuele si liberò.
Alla fine si calmò. Parlarono a lungo. Lui cercava di spiegare.
“Una volta ti ho chiesto di mio padre, ricordi?”
“Avevi cinque anni,” rispose lei.
“E cosa mi hai detto?”
Beatrice scosse la testa.
“Che era un militare, un eroe, morto in missione.”
Certo che lo ricordava. E che altro poteva dirgli? Che si era innamorata come una stupida, e quando aveva detto al padre di Emanuele di essere incinta, lui si era spaventato, voleva che abortisse. Erano studenti, mancavano due anni alla laurea…
Lei sapeva che aveva ragione, ma temporeggiava. Alla fine lo aveva detto a sua madre. Aveva gridato, pianto, ma non l’aveva lasciata abortire. Per questo le era grata. Ma solo dopo.
Matteo le aveva detto che se aveva deciso da sola, se la cavasse da sola. Non era pronto per sposarsi, per diventare padre. E così si erano lasciati. Aveva avuto il bambino e preso una pausa dagli studi. Sua madre lavorava, e nessuno poteva badare al piccolo.
Quante lacrime, quanto dolore in quei mesi. Era stato durissimo. Ma poi le cose si erano sistemate.
Cosa poteva dirgli quando, crescendo, aveva chiesto del padre? Che era stato un vigliacco? Che li aveva abbandonati? No, non poteva. Così aveva inventato la storia dell’eroe, perché Emanuele non si sentisse inferiore agli altri.
Pensava che, crescendo, avrebbe capito. Invece lui ci aveva creduto, scriveva temi su suo padre a scuola. E lei non aveva dovuto aggiungere dettagli: le missioni militari sono segrete.
Come poteva immaginare che sarebbe scoppiata la guerra? Tutti pensavano che dopo l’ultimo conflitto orribile non ce ne sarebbero stati altri.
Quella notte, prima della partenza,E quella sera, mentre i riflessi delle luci cittadine danzavano sul soffitto, Beatrice capì che la pace, finalmente, era tornata a casa loro.