Scusa per l’attesa…

**”Scusa se ho tardato così tanto…”**

Marco non tornava a casa da anni. I primi due anni, all’università in un’altra città, ancora riusciva a ripassare per le vacanze. La madre, ovviamente, lo riempiva di manicaretti, preparando tutto ciò che amava. Dopo essersi rifocillato, però, già dopo tre o quattro giorni Marco iniziava ad annoiarsi. Gli amici erano tutti via, non c’era nulla da fare.

Il paese era piccolo, conosciuto fino all’ultimo albero, bastavano poche ore per girarlo tutto. Dopo una settimana trascorsa tra sonno e noia, sentiva già il richiamo della città.

La madre lo pregava di restare ancora una settimana, ma Marco inventava scuse, promettendo impegni inesistenti, e ripartiva a cuor leggero. La grande città lo chiamava. Lì non ci si annoiava mai, lì c’era la vera vita. Si era fatto nuovi amici. Cosa c’era da fare qui? Noia e monotonia, fino a far male ai denti.

Al terzo anno aveva trovato lavoro in un fast food. Turni serali, fino alla chiusura, proprio quando arrivava la folla di giovani. Quella vita gli piaceva. E poi, i soldi non facevano mai male. Con la borsa di studio non bastava. Rifiutò con orgoglio l’aiuto della madre. Lei chiamava, lo supplicava di tornare almeno per Natale. Lui prometteva, anche se al fast food iniziava il periodo più intenso.

Finite le feste, le lezioni riprendevano. Marco rimandò il ritorno a casa fino all’estate. Ma con l’arrivo del caldo passò a tempo pieno. La città pulsava, il tempo volava. Poi, finalmente, la laurea. Festeggiamenti con i compagni di corso, chissà quando si sarebbero rivisti.

E poi un amico gli propose di lavorare in Grecia.

“Vieni con me. Fai al caso loro. Decidi ora, però. I documenti vanno preparati in fretta. Il tipo che doveva venire ha mollato—la fidanzata è rimasta incinta, ha deciso di sposarsi. Allora, forza, non te ne pentirai. Contratto di un anno. L’inglese lo mastichi, il greco lo impari.”

Finché siamo giovani, dobbiamo vedere il mondo. Poi arriveranno il lavoro fisso, il matrimonio, i figli, e partiremo una volta ogni tre anni per una settimana. “Balliamo finché siamo giovani, ragazzo mio,” cantò stonato l’amico.

Marco accettò. Iniziò il caos delle visite mediche, dei documenti. Prima della partenza chiamò la madre. Con voce colpevole, le promise che sarebbe tornato tra un anno e sarebbe passato senz’altro.

“Ma come, figlio mio? Te ne vai per un anno intero?! Almeno un giorno potresti venire. Ho quasi dimenticato com’è il tuo viso,” supplicava lei.

“Scusa. Parto domani, i biglietti sono già pronti. Non posso lasciare in difficoltà l’azienda e il mio amico. Basta, mamma, ti voglio bene, ti chiamo…”

In Grecia vivano nell’hotel dove lavoravano, mangiavano lì. Chi voleva, affittava. Risparmiavano, non spendevano molto. Di tutto avevano fatto, senza mai rilassarsi: ogni errore era punito con multe. Ma a Marco piaceva.

Tornò dopo tre anni. Comprò subito un appartamento con un mutuo, trovò lavoro. Chiamava la madre, ma di fretta. Prometteva di venire, appena avesse sistemato tutto. Ma gli impegni si accumulavano.

Un weekend decise di uscire con un amico. Bevvero, ballarono, si divertirono. Marco si svegliò a letto con una ragazza. Bella o meno, non riusciva a capirlo. Una ciocca di capelli scuri le cadeva sul viso. Non osò spostarla per non svegliarla. Non ricordava il suo nome, né come fosse finita nel suo appartamento.

Con cautela scivolò fuori dal letto e raggiunse la cucina. Bevve un bicchiere d’acqua e si infilò sotto la doccia. Rimase a lungo sotto il getto caldo, pensando a come cacciarla con garbo.

Ma quando uscì, profumato di bagnoschiuma, quasi sobrio, la ragazza era già in cucina. Per fortuna era davvero bella. Indossava solo la sua camicia, lasciando intravedere gambe sinuose. Sembrava così travolgente che Marco dimenticò di averla quasi spinta fuori dalla porta. L’odore del caffè riempiva l’aria, sul tavolo formaggio affettato con cura.

“Scusa, ma nel frigo non c’era altro,” gli sorrise.

Dopo il caffè tornarono a letto.

La ragazza si chiamava Livia. Marco dubitava fosse il suo vero nome, ma non chiese. Che importava? Bastava che fosse senza pretese. Livia rimase da lui un mese.

Le piaceva, l’attrazione era puramente fisica. Cosa poteva volere di più un ragazzo? Con lei era facile e divertente. Non amava cucinare né sapeva farlo. Ordinavano pizza o uscivano.

In quel mese, Marco non dormì mai abbastanza. Livia non lavorava, diceva di cercare se stessa. Lui usciva, lei dormiva. La sera lo trascinava in discoteca fino a tardi.

La stanchezza si accumulava, l’irritabilità cresceva. Capiva che quella vita non faceva per lui. Il capo lo guardava sospettoso. E su Livia non si faceva illusioni: viveva grazie a chi pagava per il suo corpo. Era ora di cambiare, prima di perdere il lavoro. I soldi sfumavano tra le dita. Ma non poteva buttarla in strada.

Pensò di scappare nel suo paese per il weekend, riposarsi, riflettere. Sperando che Livia capisse e se ne andasse. Comprò dei regali per la madre, chiamò Livia dalla stazione per dirle che era partito, senza sapere quando sarebbe tornato.

“E io?” chiese lei, voce offesa.

Marco immaginò lei sul divano, gambe lunghe, vestito corto, telefono in mano. Ma quell’immagine non lo turbò più.

“Fai quello che vuoi,” rispose, e chiuse la chiamata.

Tutto il viaggio immaginò l’arrivo a casa, il suono del campanello, i passi dietro la porta. La madre avrebbe spalancato le braccia per abbracciarlo…

Un po’ di vergogna lo assalì per le chiamate rare, le visite mancate. Aveva ragione a offendersi. Il padre era morto quando Marco aveva quindici anni. La madre era ancora giovane, avrebbe potuto rifarsi una vita. E se l’avesse fatto? Tornato, avrebbe trovato un altro uomo a tavola… Scacciò il pensiero.

Salendo le scale, trattenne l’impulso di correre come da bambino. Quanto tempo era passato. Si fermò davanti alla porta e ascoltò. Silenzio. E se…? No, sciocchezze. La madre era sana. Premette il campanello.

Il suono ovattato risuonò dietro la porta. Ma nessun passo. La serratura scattò, la porta si aprì. Una bimba di sette anni lo fissò, treccine bionde, orsetto stretto al petto.

“Cerca qualcuno?” chiese seria.

“Ciao. Ci sono gli adulti?”

La bambina lo guardò perplessa. Marco capì l’errore: lei si sentiva grande abbastanza.

“Chi cerca?” chiese cauta.

“Non ti hanno insegnato a non aprire agli sconosciuti?” ribatté lui.

“Credevo fosse la nonna,” spiegò.

“Nonna? Intendi nonna Anna?” precisò Marco.

“Non è una vecchia, è la nonna.” La bimba cercò di chiudere.

“Ehi, io comunque non sono uno sconosciuto. Questa èMentre la porta continuava a chiudersi, Marco vi mise un piede e sussurrò: “Sono tuo padre”.

Rate article
Add a comment

;-) :| :x :twisted: :smile: :shock: :sad: :roll: :razz: :oops: :o :mrgreen: :lol: :idea: :grin: :evil: :cry: :cool: :arrow: :???: :?: :!:

three × three =

Scusa per l’attesa…