**12 Marzo 2023**
Scrivo queste righe con un nodo in gola. È passato tanto tempo dall’ultima volta che sono tornato a casa. I primi due anni, mentre studiavo all’università in un’altra città, tornavo ancora per le vacanze. Mia madre, ovviamente, mi riempiva di cibo, cucinando tutto ciò che amavo di più. Dopo essermi rimpinzato, dopo tre o quattro giorni cominciavo ad annoiarmi. Gli amici se n’erano andati, non c’era niente da fare.
Il paese è piccolo, lo conosco come le mie tasche, in poche ore lo giri tutto. Dormivo fino a tardi e, dopo una settimana a girarmi i pollici, avevo già voglia di tornare indietro.
Mamma mi pregava di restare ancora qualche giorno, ma io inventavo scuse, impegni inesistenti, e partivo con il cuore leggero. La città grande e rumorosa mi chiamava. Lì c’era la vita, il divertimento. Avevo fatto nuove amicizie. E qui cosa avrei fatto? Noia mortale, una monotonia che ti fa venire il mal di denti.
Al terzo anno trovai lavoro in un fast food. Lavoravo la sera, fino alla chiusura, proprio quando arrivava la massa di ragazzi. Quella vita mi piaceva. E poi, i soldi non facevano mai male. Con la borsa di studio non ci campavi. Rifiutai con fierezza l’aiuto di mia madre. Lei chiamava, mi chiedeva di tornare almeno per Natale. Promettevo, anche se al lavoro era il periodo più intenso.
Finite le vacanze natalizie, ricominciavano le lezioni. Rimandai il viaggio a casa fino all’estate. Ma con l’arrivo del caldo, passai a tempo pieno. La vita in città scorreva veloce, il tempo volava. E poi ecco la laurea. Festeggiammo con gli amici per giorni—chissà quando ci saremmo rivisti?
Poi un amico mi propose di andare a lavorare in Spagna.
«Vieni con me. Hai tutto quello che serve. Decidi ora però, abbiamo poco tempo per i documenti. Il ragazzo che doveva venire ha tirato il freno—la sua ragazza è rimasta incinta, ha deciso di sposarsi. Allora, forza, accetta, non te ne pentirai. Contratto di un anno. L’inglese lo mastichi, lo spagnolo lo impari.»
Mentre siamo giovani, bisogna vedere il mondo. Poi arriverà il lavoro serio, il matrimonio, i figli, e andremo all’estero una volta ogni tre anni per una settimana. «Balla finché sei giovane, ragazzo mio», mi cantò stonato l’amico.
Accettai. Giorni frenetici tra medici, documenti, pratiche. Prima di partire chiamai mia madre. Colpevole, le promisi che sarei tornato tra un anno, che sarei passato di sicuro.
«Come, figlio mio? Te ne vai per un anno intero?! Almeno un giorno vieni a salutarmi. Sto cominciando a dimenticare come sei fatto», diceva lei.
«Scusa. Domani volo, i biglietti sono già pronti. Non posso lasciare in difficoltà l’azienda e l’amico. Va bene, mamma, ti amo, ti chiamo…»
In Spagna vivevamo in albergo, mangiavamo lì. Chi voleva, affittava casa. Risparmiavamo, non spendevamo molto. Di lavori ne facevamo di tutti i tipi. Niente svogliatezza, per ogni errore c’era una multa. Ma a me piaceva.
Tornai dopo tre anni. Comperai subito un appartamento con un mutuo, trovai un lavoro. Chiamavo mia madre, ma sempre di fretta. Promettevo di passare, appena avessi sistemato le cose. Ma un impegno sostituiva l’altro.
Un weekend decidemmo di andare in discoteca con un amico. Bevemmo, ballammo, ci divertimmo. Mi svegliai nel letto con una ragazza. Bella o no, non riuscivo a capirlo. Una ciocca di capelli scuri le cadeva sulla faccia. Non osai spostarla per non svegliarla. Non ricordavo il suo nome, né come fosse finita nel mio appartamento.
Mi liberai dolcemente dalle coperte e andai in cucina. Bevvi un bicchiere d’acqua e mi infilai nella doccia. Rimasi a lungo sotto il getto, pensando a come sbatterla fuori in modo educato.
Quando uscii, profumato di bagnoschiuma, ormai quasi sobrio, la trovai già in cucina. Grazie a Dio, era bella. Indossava solo la mia camicia, lasciando intravedere gambe affusolate e seducenti. Era così incredibilmente sexy che dimenticai all’istante l’intenzione di cacciarla. Nell’aria c’era odore di caffè, sul tavolo formaggio tagliato a fette sottili.
«Scusa, ma in frigo non c’era altro», mi sorrise.
Dopo il caffè tornammo a letto…
La ragazza si chiamava Ludovica. Dubitavo fosse il suo vero nome, ma non chiesi. Che importava? L’importante era che non avesse pretese né complicazioni. Restò da me un mese.
Mi piaceva, ma solo fisicamente. E cos’altro vuole un ragazzo giovane? Con lei era facile, divertente. Non le piaceva cucinare, e non sapeva farlo. Ordinavamo pizza o andavamo al ristorante.
In quel mese non dormii mai davvero bene. Ludovica non lavorava. Diceva di star cercando se stessa. Io uscivo per l’ufficio, lei ancora dormiva. La sera mi trascinava di nuovo in discoteca, dove bevevamo fino a tardi.
L’affaticamento si accumulava, l’irritabilità cresceva. Capivo che quella vita non faceva per me. Il mio capo mi guardava con sospetto. E su Ludovica non mi facevo illusioni—viveva alle spalle di ragazzi disposti a pagare per il suo bel corpo. Era ora di smettere con quella vita sregolata, prima di perdere il lavoro. I soldi scivolavano via tra le dita. Ma non potevo certo cacciarla in strada.
Non trovai di meglio che scappare nel mio paese per il weekend, riposarmi, riflettere, sperando che Ludovica capisse e se ne andasse da sola. Comperai dei regali per mia madre, e dalla stazione chiamai Ludovica per dirle che ero partito, non sapevo quando sarei tornato.
«E io?», chiese lei, stizzita, tirando le parole.
La immaginai seduta sul divano in pose studiate, gambe lunghe distese, vestita di un accappatoio corto, telefono in mano. Ma quell’immagine non mi turbò come un tempo.
«Fai quello che vuoi», dissi, e riattaccai.
Per tutto il viaggio pensai a come sarebbe stato arrivare, suonare il campanello, sentire il trillo ovattato, poi i passi. Mamma avrebbe aperto, avrebbe sussultato, allargato le braccia per abbracciarmi…
Mi vergognavo un po’ per quanto l’avessi trascurata. Aveva tutto il diritto di offendersi. Mio padre era morto quando avevo quindici anni. Lei era ancora giovane, avrebbe potuto rifarsi una vita. E se l’avesse fatto? Sarei arrivato e trovato un nuovo marito a tavola… Scacciai quei pensieri.
Salendo le scale, trattenni l’impulso di saltarne due alla volta, come facevo da ragazzino tornando da scuola. Che tempo fa. Mi fermai davanti alla porta e ascoltai. Silenzio. E se… No, sciocchezze, mamma è giovane, non poteva esserle successo niente. Premetti con decisione il campanello.
Dietro la porta si udì un trillo sordo. Ma nessun passo. La serratura scattò e la porta si aprì appena. Vidi una bambina di setteVidi una bambina di sette anni con gli occhi grandi, trecce bionde e un orsacchiotto stretto al petto che mi guardava incuriosita, mentre alle sue spalle mia madre, con le lacrime agli occhi, sussurrava: “È tua figlia, Alessandro”.