Andrà tutto bene, caro…

**30 Settembre 2023**

Tutto andrà bene, figlio mio…

“Ettore, sono tua madre,” sentii una voce flebile dall’altro capo del telefono.

Mi dava sempre fastidio quel modo di dire che era lei, come se non riconoscessi la sua voce. Quante volte le avevo spiegato che il suo nome appariva sullo schermo quando chiamava?

Lei usava ancora quel vecchio telefono a tasti. Le avevo comprato un modello nuovo, con mille funzioni, ma si era rifiutata.

“Son troppo vecchia per ste cose moderne. Regalalo piuttosto… a Concetta. Sua figlia non le fa mai regali. Ne sarà felice.”

Concetta aveva accettato con gioia il telefono, imparando subito a usarlo. Non l’avevo fatto solo per gentilezza: se fosse successo qualcosa a mamma, Concetta mi avrebbe chiamato subito. Avevo persino salvato il mio numero nei suoi contatti.

“Mamma, so che sei tu,” dissi sorridendo. “Stai bene?”

“Ettore… sono in ospedale.”

Un brivido mi corse lungo la schiena.

“Cosa c’è successo? Il cuore? La pressione?” mi agitai.

“Mi operano domani. L’ernia si è infiammata. Non ce la faccio più.”

“Perché non mi hai chiamato prima? Ti porto in città, qui gli ospedali sono migliori, i chirurghi bravi. Mamma, ti prego, rimanda l’operazione!” insistetti.

“Stai tranquillo. Ti ricordi il dottor Filippo? È molto capace…”

“No, ascoltami, parto domani all’alba,” la interruppi. Alzai la voce perché il suo si faceva sempre più flebile.

“Non preoccuparti. Andrà tutto bene, figlio mio. Ti voglio bene…”

Il segnale si interruppe con un tono secco.

Guardai l’orologio: mezzanotte e dieci.

Quelle ultime parole erano sembrate ovattate, come da lontano. Mamma non mi aveva mai chiamato a quell’ora. Qualcosa non andava. Richiamai, ma nessuna risposta. Riprovai ancora, invano.

Mi alzai dalla scrivania e guardai fuori dalla finestra. Nevischiava da due giorni. In condizioni normali, ci volevano cinque ore per raggiungere il paese, ma con quel tempo sarebbero state sei. Dovevo partire subito per arrivare prima dell’intervento. Chissà a che ora lo avrebbero fatto.

Spensi il computer e mi preparai in fretta. Mentre uscivo, dimenticai il caricabatterie. Tornai indietro a prenderlo e, mentre ero in ingresso, ricordai le parole di mamma: “Se dimentichi qualcosa e torni indietro, guardati nello specchio prima di uscire di nuovo.”

Mi osservai: occhi stanchi, viso tirato. “Ha detto che andrà tutto bene,” mi dissi. “Non mi ha mai mentito.”

Sulla strada, mi chiesi se chiamare Concetta. Lei e mamma erano vicine da una vita. Ma nel paese si dorme presto, e poi… perché non aveva chiamato lei? L’avevo avvertita.

Il motore si scaldò e partii.

Quante volte avevo insistito perché venisse a vivere con me. L’appartamento era grande, c’era spazio. Ma lei rifiutava sempre. “Figlio mio, sei giovane, ti darei fastidio. Io sto bene qui.”

Ah, mamma… Perché non mi hai chiamato prima? Sempre così attenta a non disturbare, a non pesare.

Ora capivo cosa mi aveva turbato durante la chiamata. La sua voce era strana, smorzata, quasi parlasse da dietro un muro. E quell’ultimo “ti voglio bene” quasi incomprensibile. Si sarà sentita in colpa per avermi svegliato. Mai prima d’ora aveva chiamato a quell’ora.

L’ernia la tormentava da anni, con il freddo peggiorava. Ma rimandava sempre l’operazione. L’orto da coltivare, la verdura da raccogliere, Concetta malata da assistere…

E io? Vivevo a poche ore di distanza, avevo la macchina, ma il tempo per visitarla non lo trovavo mai. Anche io avevo le mie scuse.

Ricordavo mamma dolce, ma severa quando serviva. Alle medie, tornai una notte all’alba dopo essermi perso con una ragazza. Lei mi aspettava, in silenzio. Mi guardò con occhi freddi.

“Dove corri così? Pensi di essere pronto per il matrimonio? Poi piangerai come un lupo. Vai a dormire, non ti voglio più vedere.”

Il giorno dopo evitò il mio sguardo. Peggio di mille urla. Quando si calmò, le chiesi: “Perché mi eviti? Tutti escono la sera. Tu non lo facevi?”

Allora mi raccontò di quando, a diciassett’anni, si era innamorata di un ragazzo. Passavano le notti insieme, tra i canti degli usignoli. Ma quando rimase incinta, lui scappò. Mio padre la salvò dal disonore, dicendo che era stato lui. Si sposarono, ma poco prima delle nozze, durante la raccolta delle patate, perse il bambino. Papà la sposò lo stesso. Io nacqui otto anni dopo…

La strada era buia, deserta. Caddi in microsonni pericolosi. Una volta sussultai di colpo e mi accorsi che stavo guidando in contromano. Un’altra volta quasi finii nel fossato. Accesi la radio a volume alto, cantai a squarciagola per tenermi sveglio.

Arrivai all’ospedale, un vecchio edificio di mattoni con poche finestre illuminate. C’erano solo tre medici: un internista, un chirurgo e il suo assistente.

Bussai. Mi aspettavo un’attesa infinita, ma la porta si aprì subito. L’infermiera mi squadrò, poi sbuffò: “L’ambulatorio apre alle otto.”

“Sono qui per mia madre. Devono operarla oggi. Lucia De Santis.”

Mi fissò un attimo, poi: “Entra. Aspetta qui.”

La stanza era piccola, con vetri smerigliati. Una branda macchiata, una sedia. Tristezza.

Dopo pochi minuti entrò il dottore. Lo riconobbi: alle elementari mi aveva visitato per un mal di pancia.

“Dottor Filippo?”

“Ecco…” sospirò. “Lucia De Santis è morta ieri.”

“Ma come? L’operazione era per oggi! Mi ha chiamato, mi ha detto—”

“L’abbiamo operata ieri mattina, ma… era tardi. È spirata la sera.”

“Ma mi ha chiamato a mezzanotte!” Gridai, tirando fuori il telefono. Nessuna chiamata. Mi era sembrato tutto così reale…

“Porti le cose della signora De Santis,” ordinò il dottore all’infermiera. Poi, a me: “Preferisco che non la veda. È in obitorio. Decida per il funerale.”

Uscì.

Fuori, il cielo grigio ma senza pioggia. Salii in macchina direzione al paese. Per tutta la strada cercai di capire come avesse potuto chiamarmi. Avevo sentito storie simili, ma… era possibile?

Concetta mi vide arrivare, corse piangendo. “Ettore, finalmente! Perdonami! Le dicevo sempre di chiamare l’ambulanza, ma non voleva. Quando non riusciva più a camminare, ho chiamato mio figlio Federico per portarla. L’hanno operata subito… Mi dispiace, non sapevo come dirtelo.”

“Non importa,” la confortai.

Entrammo in casa. Era tutto in ordine, solo il tappeto vicino al letto era spostato. Mi sedetti, poi crollai sul letto, piangendo.

Mi svegliai con il freddo. Accesi la stufa, trovai una pentola di polenta. Mangiai mischiandola alle lacrime.

Era come se il suo amore avesse attraversato persino la morte, per assicurarsi che io non rimanessi solo.

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