Il Richiamo

Allora, mi siedo a scrivere questo ricordo, come se fosse una pagina del mio diario.

Lucia aveva finito di pranzare, lavato i piatti e si era stesa per un riposino. Suo marito, Enrico, era partito per la casa di campagna di un amico per aiutare a riparare una staccionata. Sarebbe tornato solo domani sera, lunedì aveva lavoro. Lucia era in pensione da un anno, mentre Enrico avrebbe dovuto aspettarne ancora due.

Un squillo improvviso la strappò dal sonno. Non capì subito che era il telefono.

“Pronto…” rispose con voce rauca dal dormiveglia, senza nemmeno guardare lo schermo. Chi poteva chiamarla, se non sua figlia o Enrico? Lui odiava telefonare, quindi doveva essere la figlia. Viveva in un’altra città col marito e presto avrebbe partorito.

“Lucia? Dormivi?” una voce di donna, sconosciuta, risuonò dall’altra parte.

“Chi parla?” chiese Lucia, diffidente.

Dall’altro capo un sospiro esageratamente rumoroso.

“Non mi riconosci? Quanto tempo è passato?”

“Beatrice?… Come hai avuto il mio numero?” si stupì Lucia, senza provare alcuna gioia.

“Cos’importa? Ho incontrato tua madre anni fa, me l’ha dato lei.”
Lucia ricordò vagamente che sua madre ne aveva fatto cenno.

“Sei in città?” domandò, sapendo già che era una domanda stupida. Perché chiamare, se non per vedersi? “Avevo sentito che eri andata in America,” aggiunse.

Una risata, subito trasformata in un gemito.

“Che c’è? Dove sei?” si preoccupò Lucia.

“Sono all’ospedale. È per questo che ti chiamo. Puoi venire? Voglio dirti qualcosa. No, non portare niente, non serve.”

“All’ospedale? Stai male?” chiese Lucia, ora completamente sveglia.

“Mi è difficile parlare. Ti mando l’indirizzo con un messaggio.”

“Ma…” iniziò Lucia, ma la linea si interruppe.

Poco dopo arrivò l’SMS con il nome dell’ospedale. “Dio mio, Beatrice ha un tumore!” rileggendo il messaggio, si sentì sconvolta.

Guardò l’orologio: le cinque e mezza. Se avesse aspettato, le visite sarebbero finite. Prese dal freezer un pollo per il brodo. Beatrice aveva detto di non portare nulla, ma come si fa ad andare in ospedale a mani vuote? Il brodo fatto in casa non è cibo, è medicina. Mise il pollo a scongelare nel lavandino e si sedette. Sua figlia aveva ventotto anni, quindi altrettanti erano passati dall’ultima volta che aveva visto Beatrice.

Con l’età, Lucia aveva imparato ad accogliere ogni notizia con cautela, anche quelle buone. Quella chiamata le aveva lasciato un’inquietudine persistente. E Enrico, per disgrazia, non c’era. Forse era meglio così. L’indomani avrebbe preparato il brodo, sarebbe andata all’ospedale e avrebbe saputo tutto. Ma placarsi era impossibile.

Beatrice era stata cresciuta dalla nonna paterna fin dai dieci anni. Non conosceva affetto e passava le serate da Lucia a fare i compiti insieme. La nonna distillava grappa di contrabbando e la venduta agli ubriaconi del paese. I genitori, naturalmente, bevevano anche loro. Le mogli degli alcolisti minacciavano di bruciare l’officina clandestina. Forse qualcuno aveva dato fuoco, o forse, come diceva la polizia, il padre si era addormentato con una sigaretta accesa. Fatto sta che i genitori di Beatrice non riuscirono a fuggire dall’incendio. La nonna era sparita, e Beatrice, come al solito, era da Lucia. Si salvarono.

Dopo l’incendio, sistemarono nonna e nipote in un dormitorio. Nelle cucine comuni era vietato distillare. La nonna si rattristò, contò ogni centesimo e rimproverava Beatrice per ogni tozzo di pane mangiato. Beatrice pranzava da Lucia.

La nonna odiava la madre di lei, la chiamava strega, l’accusava di aver stregato suo figlio, di averlo spinto a bere. Che in casa ci fosse grappa gratis, quello lo taceva. La madre di Beatrice era bellissima. Raramente un uomo, di qualsiasi età, passava senza notarla. Il padre la picchiava per gelosia.

Beatrice crebbe somigliandole moltissimo: alta, snella, con una chioma di ricci rossi, occhi neri e labbra carnose. Le lentiggini sul viso non la rovinavano, anzi, le donavano un’aria dorata.

Appena finita la scuola, scappò con un ragazzo di passaggio. “Senza giudizio, tutta sua madre,” sospirava la nonna.

A sua madre non piaceva l’amicizia di Lucia con Beatrice, anche se la compativa. Quando fuggì, tirò un sospiro di sollievo. Temeva sempre che la trascinasse su cattive strade. Cosa le legava? Nemmeno Lucia lo sapeva, ma con Beatrice ci si divertiva.

Lucia si diplomò, trovò lavoro, conobbe Enrico e lo sposò. Un anno dopo nacque la figlia. Di Beatrice sentì solo pettegolezzi.

Sua madre lavorava e non poteva aiutarla, e la sera, quando Enrico era a casa, non osava andare. Così Lucia faceva tutto da sola, crollando dalla stanchezza.

L’unica cosa che sognava in quel periodo era dormire. Se chiudeva gli occhi mentre allattava, sprofondava nel sonno. Si svegliava di soprassalto, terrorizzata di aver lasciato cadere la bambina o di averla soffocata col seno pesante. Una volta sazia, la piccola dormiva serena tra le sue braccia. Lucia la adagiava nella culla e poi correva a tirare il latte, cucinare, lavare i pannolini bagnati, costringendosi a tenere gli occhi aperti.

Fu in quel momento difficile che riapparve Beatrice. Assomigliava ancora di più a sua madre, ancora più bella, se possibile.

“Che aspetto, amica. Lo sapevo che il matrimonio e la maternità non abbelliscono una donna. Non avrò mai figli,” disse Beatrice appena la vide, senza neanche salutare.

“Non giurarci sopra,” rispose Lucia con una smorfia.

Poi Beatrice confessò di aver fatto molti aborti e di non poter più avere figli. Ma l’istinto materno è genetico. Aiutava volentieri con la piccola, la portava a spasso mentre Lucia, stremata, cucinava o dormiva.

Poco dopo, Beatrice lasciò il ragazzo con cui era scappata, dopo il primo aborto. Il suo uomo successivo era molto più anziano. Le affittò un appartamento nel centro di Milano e la visitava due volte a settimana.

“Vivevo quasi nel lusso,” sospirava Beatrice ricordando quei giorni.

“Perché quasi?” chiese Lucia. Ascoltare storie di uomini la annoiava, ma per cortesia continuava la conversazione.

“Vecchio e ripugnante,” fece una smorfia. “Però non era avaro, mi dava soldi, regali, gioielli, pellicce.”

“E la moglie? I figli?”

“Che c’entrano?” scrollò le spalle.

Quando l’uomo scoprì che Beatrice vedeva altri, la cacciò. Poi ne arrivarono altri, persino uno straniero. Fu così che nacquero le voci sulla sua partenza per l’America. In realtà, lo straniero era norvegese.

“Ma basta parlare di me. Come hai fatto a farti mettere incinta e trasformarti in una fabbrica di latte? E questa la chiami felicità? Non la voglio.”

Enrico la guardò con sospetto.

“Non sapevo avessi un’amica così,” disse la prima volta che laLucia uscì dal cimitero con il cuore più leggero, decisa a non lasciare che il passato rovinasse la felicità che aveva costruito con Enrico, e mentre il sole primaverile le accarezzava il viso, pensò che forse, alla fine, perdonare era davvero l’unica medicina.

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