Una Nuova Chance.

In piedi nel suo elegante ufficio, Matteo Rossi si abbandonò sulla poltrona di pelle, gli occhi fissi sul soffitto mentre un sorriso di soddisfazione gli solcava il volto. Il suo ristorante, ormai considerato il migliore di Milano, era la prova tangibile del suo successo. Tutto grazie alla cucina raffinata, allo staff dedicato e a quell’atmosfera che sapeva di casa.

La mente vagò indietro nel tempo, agli anni difficili, quando l’Italia degli anni ’90 imponeva scelte audaci. Suo nonno, Vittorio Bianchi, aveva venduto la casa al mare per dargli il capitale iniziale, credendo ciecamente nel suo talento imprenditoriale.

Con quei soldi, Matteo aprì una bancarella di panini al mercato. Poi un piccolo locale vicino alla stazione Centrale. E infine, dopo anni di sacrifici, costruì quell’impero che oggi dominava con orgoglio. Suo nonno, che lo aveva cresciuto assieme alla nonna Lucia dopo la morte del padre, era stato sempre la sua roccia.

Ma c’era una ferita mai rimarginata: sua madre. “Matte”, come lo chiamavano da piccolo, quasi non la ricordava. Se n’era andata poco dopo la tragedia. I nonni dicevano che aveva abbandonato tutto, ma nel cuore lui non smise mai di aspettarla. Finché un giorno, durante un litigio, la nonna gli urlò che era morta. Il nonno tentò di calmarla, ma quelle parole gli rimasero inchiodate nell’anima.

Gli anni passarono. Matteo sposò Elena, ebbe due figli e costruì una famiglia felice. Ma certe ferite riappaiono quando meno te lo aspetti…

Una mattina, ispezionando il ristorante, trovò la nuova addetta alle pulizie, Giulia, che condivideva del cibo con una donna anziana, vestita di stracci, nel retro. Scandolezzato, la rimproverò aspramente. Un locale di quel livello non poteva tollerare certe presenze. Strappò il pane dalle mani di Giulia e lo gettò ai piedi della donna, gridandole di sparire.

Lei si chinò lentamente, raccolse il pane e mormorò con voce tremula:
*”Con un pezzo di pane, si supera ogni dolore.”*

Una scossa percorse Matteo. Quelle stesse parole gliele aveva dette sua madre quando era bambino. Il cuore gli si fermò. La fermò.
“Come fa a conoscere questa frase?”
“È solo un vecchio detto,” rispose la donna, guardinga.
“Come si chiama?”
“Sofia Marchetti.”

Il nome, le parole… tutto coincideva. Poteva essere possibile?

Con voce incrinata, la invitò a pranzo. Mentre mangiavano, le chiese:
“Ha avuto figli?”
La donna sospirò.
“Ne ho avuto uno… il mio piccolo Matteo. Me lo portarono via… Finii in carcere per un errore, e quando uscii, lui era sparito. Cercai, ma non lo trovai mai.”

Ogni parola era un coltello. Le domande si fecero più precise, le risposte sempre più coincidenti.
“Dov’è cresciuto? Come si chiamavano i suoceri?”
Lei rispose… e Matteo tremò.

Era la sua storia. Era *lei*.
“Mamma…?” La voce gli si spezzò.

La donna lo fissò a lungo. Poi, in un sussurro:
“Matte…?”

E scoppiò in lacrime.

Matteo l’abbracciò, stringendola forte, promettendo che mai più avrebbe sofferto. Le diede una casa, cure, tutto l’amore che il destino le aveva negato.

E la vita, magnanima, gli aveva concesso una *seconda occasione*.

Perché, in fondo, l’amore vero trova sempre la sua strada.

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