Il Destino di un Eroe

Fiona

Ginevra studiava all’università e, come molti studenti, faceva lavoretti per mantenersi, spesso di notte. Sua madre non poteva aiutarla e con una sola borsa di studio in una grande città era difficile sopravvivere.

Dopo la sessione estiva, si prese una pausa e trascorse tre settimane dalla mamma. Tornò riposata, piena di energie, carica di verdure dell’orto e barattoli di marmellata che la madre aveva sistemato con cura nella sua borsa.

Ginevra scese dall’autobus nella piazza della stazione. Dopo il lungo viaggio, la borsa le sembrò il doppio più pesante. Raggiunse a fatica la fermata del pullman e sollevata posò il suo carico su una panchina.

Tornare in città la rendeva leggera. Stare dalla mamma era bello, ma ormai viveva da sola da due anni, abituata alla sua indipendenza. Le mancavano il rumore della città e gli amici. Quando aveva iniziato a lavorare, era riuscita a permettersi un piccolo appartamento, lasciando il dormitorio.

L’appartamento era minuscolo, in una zona residenziale, ma l’importante era che costasse poco. Le finestre si affacciavano su un terreno incolto coperto d’erba alta, dietro cui si stagliava un bosco. Di notte non si vedeva una luce, ma di mattina il sole inondava la casa. E d’inverno, la neve bianca che copriva il terreno rendeva tutto luminoso persino di notte.

Una serie di guaiti sommessi attirò la sua attenzione. Ginevra sbirciò sotto la panchina e vide un muso appuntito e marrone. Due grandi occhi scuri e sporgenti esprimevano paura e tristezza. Solo allora notò il guinzaglio legato alla panchina. Si accovacciò. Il bassotto si ritrasse ancora più sotto la panchina, tremando tutto.

“Non aver paura. Vieni fuori,” disse piano Ginevra, tirando delicatamente il guinzaglio.

Riluttante, guaendo, il cane uscì da sotto la panchina, pronto a ritrarsi al minimo segnale di pericolo. Ma Ginevra teneva ben saldo il guinzaglio.

Il cane respirava affannosamente, la lingua penzolante. Era un agosto insolitamente caldo. Per questo si era nascosto all’ombra della panchina.

Ginevra capì che aveva sete. Poco lontano c’era un chiosco che vendeva bevande e altri articoli.

“Torno subito,” sussurrò al cane e si diresse verso il chiosco.

“Una bottiglietta d’acqua, per favore,” chiese a una commessa scontrosa. “Per caso avete una lattina vuota?”

“Meglio un bicchiere di plastica?” rispose la donna con una smorfia.

“No, per il cane sarebbe difficile bere. Laggiù, legato alla panchina, c’è un bassotto. Lo avete visto prima? Sapete da quanto è lì?”

La donna socchiuse gli occhi, guardò verso la panchina e sospirò.

“La gente è davvero crudele. Ho aperto il chiosco alle otto e ho visto un uomo scendere da un’auto di lusso, legare il cane e andarsene. Non è più tornato. Penso l’abbia abbandonato. Ecco, tieni. Non è lavata.” Le porse una lattina di sgombri vuota.

Ringraziando, Ginevra pagò l’acqua, che costava il doppio rispetto agli altri negozi, e tornò dal cane. Sciacquò la lattina, vi versò dell’acqua e la posò davanti al bassotto, che nel frattempo si era rifugiato di nuovo sotto la panchina.

“Bevi, tranquillo.”

Rassicurato dalla sua voce calma, il cane si avvicinò, annusò e iniziò a bere rumorosamente. Quando la lattina fu vuota, Ginevra la riempì di nuovo.

“Cosa posso fare con te? Di notte i cani randagi potrebbero ferirti. O magari finiresti nelle mani di qualche barbone. Brrr.” Un brivido la percorse. “Vieni con me? Non hai scelta.”

Scrisse il suo numero su un pezzo di carta e lo lasciò al chiosco, nel caso il padrone si ripresentasse. Slegò il guinzaglio e trascinò il cane riluttante sul pullman arrivato in quel momento. Pagò per due, ma né l’autista né i passeggeri si lamentarono, e il cane rimase tranquillo in grembo a Ginevra.

A casa si rannicchiò nell’ingresso, annusando gli odori sconosciuti, senza curiosare. Ginevra gli preparò un giaciglio con una coperta. Il bassotto vi si sdraiò subito, osservandola con gli occhi grandi.

“Come ti chiami?” Ginevra iniziò a elencare nomi a caso. “Non ti piace? Forse… Felix?”

Il cane abbaiò.

“Allora ti chiamerò Felix.” Un altro abbaio. “Davvero capisci? Perché il tuo padrone ti ha lasciato solo?”

Di notte, Ginevra sentì il ticchettio delle unghie sul parquet. Felix uscì dal suo angolo ed esplorò la stanza. Al minimo suo movimento, tornò indietro. Ma dopo qualche giorno si era già ambientato e la accoglieva scodinzolante quando rientrava.

Il cortile era pieno di macchine, così portava Felix nel terreno incolto. Una volta lontani dalla strada, lo lasciava libero. Temeva che scappasse, ma lui tornava quando lo chiamava. Le sorprendeva come riuscisse a correre nell’erba alta con quelle zampette corte.

Arrivò settembre, asciutto e mite, e con esso ripresero le lezioni. Ginevra tornò a lavorare di notte. Felix passava gran parte del tempo solo in casa, ma la aspettava impaziente. E lei ormai non poteva più immaginare la sua vita senza di lui.

Una domenica mattina, mentre passeggiavano nel terreno incolto, Felix iniziò a correre in cerchio e poi si lanciò verso il bosco. Ginevra lo seguì, chiamandolo, ma l’erba alta le impediva di muoversi. Si fermò.

“Felix, vieni qui! Andiamo a casa!”

Silenzio.

“Avrà trovato una tana?” pensò. Poi udì un latrato che diventò un urlo. E poi il silenzio. Presaga di una disgrazia, corse verso il bosco. Non era fitto come sembrava dalla finestra. Tra gli alberi vide una radura dove alcuni ragazzi erano accucciati, intenti a osservare qualcosa. Avevano quindici anni circa e Ginevra non si spaventò. Si avvicinò e chiese di Felix.

Al suono della sua voce, si alzarono di scatto. E allora vide Felix a terra, trafitto da un grosso ramo conficcato nel fianco. Lo fissò, incapace di distogliere lo sguardo.

Uno dei ragazzi estrasse il ramo dal corpo del cane. Felix si contorse, guaendo. Il sangue sgorgò dalla ferita.

Il ragazzo fece un passo verso di lei, brandendo il ramo insanguinato. Era più alto di lei, e gli altri due gli stavano dietro. I loro sorrisi lasciavano pochi dubbi sulle loro intenzioni. Ginevra tentò di urlare, ma non riuscì. Il ragazzo la fissava con occhi vuoti e freddi, come di un morto.

Sentì il pericolo. Senza pensare, si girò e scappò. L’erba le ostacolava la corsa, ma correva ripetendosi: “Non cadere, non cadere…” Sentiva i passi alle spalle, il fruscio dell’erba, quasi il respiro dei ragazzi.

Non osò voltarsi, correndo a perdifiato, verso casa. Le macchine parcheggiate erano ormai vicine. Un ultimo sforzo…

Qualcosa di pesante la colMentre stringeva Fiona tra le braccia, Ginevra capì che il passato poteva essere superato, e che il suo cuore aveva ancora spazio per amare, in quella nuova vita che si apriva davanti a lei, piena di luce e di speranza.

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