«Com’è diventato bello. Se solo fosse un po’ più ricco, lavorasse in un’azienda prestigiosa, forse mi innamorerei di lui», pensava Elena.
“Allora, Andrea, ti lascio al mio posto. Se ci sono problemi o difficoltà, chiamami. Non sto partendo per Marte, sarò disponibile”, disse Enrico, porgendo la mano al suo vice e amico.
“Capito, non preoccuparti. A proposito, non mi hai ancora detto dove vai in vacanza. Alle Maldive o in Turchia?” Andrea strinse la mano tesa.
“Non te l’ho detto? Vado da mia madre. Devo sistemare il tetto, aggiustare la recinzione. Prima mio padre si occupava della casa, ma da quando è morto, tutto inizia a crollare. Non ricordo l’ultima volta che sono stato al fiume con la canna da pesca.”
“Non sono mai stato a pescare in vita mia. Sono un cittadino puro. Quasi ti invidio”, sospirò Andrea. “Racconterai quando torni”, gridò alla schiena di Enrico che se ne andava.
Felice di allontanarsi dalla città rumorosa e polverosa, di abbracciare sua madre e respirare l’aria fresca dell’infanzia, Enrico tornava a casa sorridendo.
Era cresciuto in un piccolo borgo. La madre insegnava, il padre faceva il muratore. Enrico spesso aiutava suo padre nei lavori, sapeva fare tutto. Suo padre sognava che il figlio seguisse le sue orme, ma Enrico era affascinato dalle macchine, dai computer, dalle nuove tecnologie digitali. Studiava con facilità. Quando finì la scuola, disse che nel borgo non c’era futuro, voleva andare a Roma e raggiungere qualcosa di più grande della vita di muratore che suo padre desiderava per lui.
“Come non c’è futuro? Il paese cresce, i muratori saranno sempre necessari. Non morirai di fame. Vuoi che ti costruiamo una casa moderna? Ti sposerai, i bambini avranno spazio per correre”, ragionava il padre.
“È presto per pensare alla moglie. Prima devo sistemarmi”, respingeva Enrico.
Il padre si irritava, discuteva. La madre invece lo calmava con pazienza e sosteneva il figlio.
“Non tagliamogli le ali. Lasciamo che provi. È intelligente, un giorno saremo orgogliosi di lui”, convinceva il padre.
I genitori gli diedero dei soldi per il primo periodo e lo lasciarono andare a conquistare la capitale. Enrico studiò all’università e lavorò in edilizia. Col tempo, ottenne tutto ciò che desiderava.
A scuola si era innamorato di Elena, una ragazza allegra con il naso all’insù. Non era una cima negli studi, sognava di fare la parrucchiera, di aprire un salone. Ognuno aveva il proprio sogno. Così partirono per città diverse, sperando un giorno di rincontrarsi.
Quando Enrico tornava a casa per le vacanze, scopriva che Elena era già ripartita.
Avrebbe potuto chiedere alla madre di Elena il numero di telefono o l’indirizzo, ma non lo fece. L’amore avrebbe ostacolato il suo sogno. E se si fossero sposati, sarebbero arrivati i figli, sarebbe toccato lavorare per il pane quotidiano invece di realizzare i propri obiettivi. No, prima doveva ottenere tutto ciò che voleva: avviare la sua attività, comprare una macchina, costruire una casa, e solo dopo…
“Guarda che perderai tempo. Elena potrebbe non aspettarti”, diceva il padre.
“Non importa, ci sono altre ragazze”, rispondeva Enrico. Ma le altre non gli interessavano.
Adesso Enrico aveva tutto, o quasi, ciò che aveva sognato. Una bella casa in un quartiere prestigioso, un’auto di lusso, un’attività che gli garantiva buoni guadagni. Ora poteva pensare a una moglie. Le donne non mancavano, ma volevano la casa, l’auto, i soldi oltre a lui. Lui invece desiderava essere amato per quello che era.
Tornando dai genitori, segretamente sperava di incontrare Elena. Ai genitori parlava poco e in modo evasivo di sé. Vivevano modestamente, senza sprechi, guadagnandosi da vivere con onestà. Si aspettavano lo stesso dal figlio. Quando iniziava a raccontare dei suoi successi, il padre aggrottava le sopracciglia e la madre batteva le palpebre con preoccupazione. Come si poteva comprare un appartamento a Roma o costruire una casa lavorando onestamente?
“Stai infrangendo la legge? È questo che ti abbiamo insegnato? Meglio che lavorassi in edilizia piuttosto che farci arrossire di vergogna”, borbottava il padre.
Così Enrico andava a trovarli con un’auto usata e modesta, presa in prestito dagli amici in cambio della sua “Lexus”. O in treno. Di sé diceva poco: lavorava come ingegnere. Il padre annuiva soddisfatto e si gonfiava d’orgoglio per il figlio diventato romano.
Partendo per le vacanze, anche questa volta Enrico non cambiò abitudini, nonostante il padre fosse morto tre anni prima. Lasciò la “Lexus” in garage, prese un biglietto del treno e si vestì in modo semplice.
Gli toccò il posto inferiore, mentre quello superiore doveva andare a una signora anziana. Enrico glielo cedette senza esitare. La donna lo ringraziò con calore per tutto il viaggio.
Enrico era sdraiato sulla cuccetta superiore e guardava fuori dal finestrino. Gli passavano davanti boschi, campi, fiumi. E ricordava il viaggio verso Roma tanti anni prima. Sotto il ritmo delle rotaie, i pensieri e i ricordi fluivano leggeri.
Il borgo gli sembrò piccolo e meravigliosamente bello. L’aria era fresca e pulita, gli alberi avevano foglie carnose e verde brillante, al contrario della vegetazione stentata delle città polverose. Nei giardini fiorivano piante colorate, una gioia per gli occhi.
Enrico entrò nel cortile di casa. La madre lo vide, alzò le mani al cielo, gli occhi le si riempirono di lacrime.
“Figlio mio, che gioia. Non ti aspettavo. Resterai a lungo?” Lo scrutò attentamente.
“Finché non mi cacci”, rispose abbracciandola.
La madre ogni giorno preparava torte, cercando di sfamare il figlio unico con le migliori leccornie. Lui le mangiava e poi saliva sul tetto, sistemava la recinzione, riparava e dipingeva le persiane.
“Dovresti riposarti, figlio. Sei in vacanza, ma lavori tutto il giorno”, si rammaricava la madre.
“Ho già finito tutto. E tu dove vai così vestita?” chiese Enrico, notando l’abito elegante e la borsa di stoffa che teneva in mano. La madre non usciva mai senza mettersi in tiro.
“Devo andare al negozio.”
“Ci vado io in bicicletta. Cosa devo comprare?” propose Enrico.
La madre gli diede la lista della spesa.
“E tu vai così?” alzò le mani al cielo.
“E perché no?” Enrico pensava di essere vestito perfino troppo bene per il paese: jeans consumati, una camicia con le maniche arrotolate fino ai gomiti, che lasciavano vedere braccia forti e abbronzate.
Le scarpe da ginnastica… quelle erano di marca, costose. Non poteva farci niente, amava le scarpe comode e di qualità. Ma dubitava che nel paese qualcuno ne capisse il valore.
Enrico montò con disinvoltura sulla vecchia bicicletta e andò a fare la spesa. Le donne nel negozio non lo riconoscevano, lo osservavano con franchezza e chiedevano di chi fosse e chi fosse venuto a trovare. Si meravigliavano quando si presentava, lo interrogavano sul lavoro e sulla vita. Enrico rispondeva aE poi, mentre tornava a casa in bicicletta sotto il sole caldo, capì che la vera felicità non era nell’apparenza né nella ricchezza, ma nell’essere se stessi senza paura di mostrarlo, e forse, un giorno, sarebbe bastato un solo sguardo sincero per abbattere quel muro di menzogne che li separava ancora.