Ma l’hai proposto tu di portare la mamma da noi. Non ti ho costretta,” disse Kirill a Nasta.

**Diario di Anastasia**

“Ma sei stata tu a proporre di prendere mia madre con noi. Non ti ho obbligata,” mi disse Enrico.

Dopo la laurea, iniziai a lavorare nell’azienda dove già era impiegato Enrico. Notò subito la mia timidezza e la mia aria riservata. Da veterano dell’ufficio, si offrì di farmi vedere il posto e, alla fine della giornata, mi aspettò fuori con la macchina. Cominciammo a uscire e, dopo sei mesi, ci sposammo.

Enrico aveva appena comprato un appartamento a Milano, ma non ci erano rimasti soldi per i lavori di ristrutturazione. I miei genitori ci aiutarono. Ci mettemmo con entusiasmo a sistemare la nostra prima casa: andavamo nei negozi a scegliere carta da parati, mobili, ogni sorta di piccolo oggetto per rendere tutto più accogliente. La sera, incollavamo noi stessi le carte alle pareti, a volte chiamando gli amici per una mano. Fu un periodo felice. Quando finimmo, festeggiammo con una cena rumorosa e allegra. “Finalmente possiamo vivere in pace,” pensai.

“Che ne dici di aspettare ancora un po’ prima di avere figli? Prima andiamo in vacanza, ci riposiamo, e poi…” mi diceva Enrico con un sorriso.

Era giugno, il sole brillava, e una leggera brezza faceva volteggiare i pioppi. Pianificavamo la nostra vacanza: scegliemmo un hotel in Sicilia, prenotammo i biglietti. Ma la sfortuna arrivò all’improvviso, e i nostri sogni di relax svanirono.

Una mattina, mentre stavo mettendo il mascara al tavolo della cucina e Enrico aspettava che il caffè bollisse, squillò il telefono.

“Anastasia, il caffè è pronto,” disse Enrico, rispondendo alla chiamata.

Versai il liquido caldo nella tazza e lo portai alle labbra.

“Che cosa?!” urlò lui al telefono.

La mia mano tremò, il caffè mi scottò la bocca e si riversò sul tavolo in una pozza scura.

“Che succede?” chiesi, notando il suo viso stravolto.

“Mia madre è in ospedale. La vicina ha chiamato. Vado subito. Puoi andare al lavoro da sola? Avverti che arriverò tardi.”

“Certo,” risposi, fissando la macchia sul tavolo.

“Corri, pulirai dopo. L’autobus non aspetta.”

Mi affrettai verso la fermata, mentre Enrico mi superava in macchina, suonando brevemente il clacson. Feci un cenno della mano, leccandomi il labbro scottato.

“Com’è tua madre?” chiesi quando, tre ore dopo, arrivò in ufficio.

“Male. Un ictus. La parte destra del corpo paralizzata. Non parla. Il medico ha detto che le possibilità di recupero sono poche. Da sola non ce la farà mai.”

“Allora portiamola da noi. Cosa c’è da pensare? Vuoi andare da lei ogni giorno dopo il lavoro per darle da mangiare, cambiarle i pannolini… Con noi sarà più semplice.”

Enrico annuì. Per un attimo ebbi l’impressione che aspettasse proprio quelle parole.

Tre settimane dopo, portammo a casa sua madre, Isabella. Le cedemmo la nostra camera da letto.

“Potremmo alternarci per stare con lei. Come facciamo a lasciarla sola?” sussurrai in cucina.

“Anastasia, sei una donna, per te è più naturale occupartene. Domani resta a casa, parlerò con il capo per farti lavorare in smart working. Abbiamo speso tutto per la casa. Una badante non possiamo permettercela. Ci sono medicine, massaggi…”

Così io, come una trottola, mi ritrovai a darle da mangiare, a cambiarla, a correre al supermercato. Appena mi sedevo al computer, Isabella emetteva suoni, chiamandomi. Quando Enrico rientrava, ero stremata.

La stanchezza cresceva, insieme alla rabbia verso Enrico, che non faceva mai nulla, limitandosi a salutare sua madre prima di sparire. Cominciai a sbagliare al lavoro, finché un giorno il capo mi chiamò: “Enrico ha chiesto di sostituirti.”

“Non riesce nemmeno a tenere un cucchiaio? Per favore, aiutatemi!” scoppiavo con Isabella.

“Hai deciso per me senza chiedermi nulla?” protestai con mio marito.

“Non ce la fai.”

“E tu potresti aiutarmi! Sono esausta…” Mi sedetti, stringendomi la testa tra le mani. “Non sopporto più quell’odore. Cambio i pannolini spesso, ma persiste. Se apro la finestra, tua madre si lamenta del freddo.”

“Ma sei stata tu a volerla qui. Non ti ho obbligata.”

Mi mancò il fiato. Avevo scelto io, mi ero caricata quel peso da sola.

Una sera, Enrico tornò a notte fonda dopo una festa dell’azienda. Io non dormivo. Litigammo di nuovo, come ormai facevamo ogni giorno. Ne avevo abbastanza. Aprii l’armadio e cominciai a tirare fuori i miei vestiti, gettandoli sul divano.

“Basta. È tua madre, arrangiati. Io me ne vado.”

Dalla camera, un lamento.

“Cosa vuoi ancora?” entrai di furia.

Isabella aveva le lacrime agli occhi, una striscia lucida sulla guancia. Le asciugai il viso con un asciugamano. Mi afferrò la camicia da notte con la mano ancora sana, borbottando:

“Non andare… non andare…”

Mi sedetti sul letto e scoppiai in lacrime. Isabella mi accarezzò i capelli. “Scusatemi… sono stanca.”

Corsi via, scontrandomi con Enrico in corridoio. Lo fulminai con lo sguardo.

Il giorno dopo, andai da un’amica. Parlammo, bevemmo vino, piangemmo insieme.

“Se solo potesse andarsene prima,” disse lei alludendo.

“Come ti permetti? E se fosse mia madre?”

Non la visitai più. Ma quelle stesse idee, lo ammetto, mi attraversavano la mente. Avevo paura di cedere.

Un mese dopo, Isabella morì nel sonno. Il medico dell’ambulanza disse che la sua lingua le aveva bloccato il respiro. Ma io mi sentii in colpa: non l’avevo sentita.

Al funerale, ero vuota. Enrico asciugava le lacrime davanti alla bara. “Finge,” pensai disgustata. Non aspettai la sepoltura.

“Anastasia!” sentii una voce familiare.

Mi voltai. Era Daniele, un ex compagno di scuola.

“Sei tu! Non ci credo!”

Camminammo insieme. “Hai seppellito qualcuno?”

“Mia suocera.”

“È stato difficile?”

Annuii. Lui mi raccontò della sua madre, malata per un anno, della moglie scappata.

“Sei stato tu da solo a occupartene?”

“Era mia madre.”

Mi offrì un passaggio. In macchina, squillò il telefono.

“Perché sei andata via? Dove sei?” disse la voce tranquilla di Enrico.

“Torno a casa.” Riattaccai.

Daniele mi portò in un bar. Bevvi il vino con avidità, parlando senza fermarmi. Lui mi ascoltò, senza giudicare, coprendo la mia mano con la sua.

“Enrico non mi tocca da mesi. È finito, vero?”

A casa, mi sdraiai ubriaca. La mattina dopo, Daniele mi chiamò: “Hai studiato lingue, vero? Vieni a lavorare con me.”

Così feci. La mia vita cambiò.

Enrico tentò di farmi tornare, ma una sera, davanti alla tomba di Isabella, decisi: “La vita mi sorrise di nuovo quando, accanto a Daniele, trovai il coraggio di ricominciare, lasciando finalmente andare il passato.

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