Sei il mio universo

Eri il mio mondo

Luca e Ginevra vivevano nello stesso palazzo, sullo stesso pianerottolo, al quinto piano. Luca aveva appena iniziato la quarta elementare e ormai era abbastanza grande per badare alla piccola Ginevra di cinque anni, che abitava nell’appartamento di fronte. Sua madre era chirurgo e spesso, anche nei weekend, veniva chiamata per casi complicati.

Luca si comportava con Ginevra da grande: la sfamava, la proteggeva, la sgridava quando c’era motivo. E lei lo ascoltava senza fiatare, seguendolo come un’ombra, fissandolo con quegli occhioni neri che parevano ancora più grandi nel suo visino.

Un giorno Ginevra si ammalò di tonsillite. Ma come aveva fatto a prendere freddo a giugno? Luca dovette starle accanto tutto il giorno. Gli amici ormai sapevano dove cercarlo. Telefonarono a casa di Ginevra per chiamarlo a giocare a calcio.

“Non posso. Devo stare con Ginevra”, rispose serio Luca.

“Portala con te, sarà la nostra tifosa”, propose Matteo.

“Ha la febbre, non può uscire. Giocate senza di me oggi.”

“E chi fa il portiere allora?”, si lamentò Marco, sfoggiando una smorfia delusa.

“Fatelo a turno”, suggerì Luca, osservando i volti abbattuti degli amici.

“No, così non è divertente. Allora non giochiamo neanche noi.”

“Venite su, allora”, sospirò Luca, lasciando che i ragazzi entrassero in casa.

Ginevra, con una sciarpa avvolta attorno al collo, era seduta sul divano a sfogliare un libro illustrato. Vedendo i ragazzi, si illuminò.

“I miei amici, Marco e Matteo”, presentò Luca, indicando uno a uno. “Verranno a stare un po’ con noi, ti va?”

“Leggetemi il libro”, chiese Ginevra con quella ingenuità tipica dei bambini, porgendogli il volume.

“Perché non costruiamo una tenda?”, propose Marco, fissando il tavolo rotondo al centro della stanza.

“Come? Ci servono rami e paglia, ma non ne abbiamo”, disse Ginevra, gli occhi che brillavano forse per la febbre, forse per l’eccitazione.

“La paglia non serve. Possiamo usare la coperta del divano?”, chiese Marco. “Se la mettiamo sopra il tavolo, diventa una tenda.”

Ma una coperta non bastò. Ginevra disse a Luca dove trovare un altro plaid nell’armadio. Presto, tutti e quattro si ritrovarono sotto il tavolo. Nella tenda improvvisata era stretto, afoso, buio e terribilmente emozionante.

“Raccontiamoci storie di paura!”, propose Matteo. “Il mio bisnonno ha combattuto in guerra.”

“Che noia, la guerra”, bofonchiò Marco.

“Lo sai quanti ordini ha vinto? Troppi per contarli”, si vantò Matteo. “Portava il pane a Leningrado, lungo la strada della vita.”

“Basta con la guerra, è noioso”, sbuffò Marco, deluso.

“Se non lo sai, non parlare. Mio nonno diceva che durante l’assedio mangiavano non solo gatti e cani, ma anche altre persone, persino i loro familiari. Tagliavano pezzi e li cucinavano. Il pane lo facevano con la segatura”, insisteva Matteo.

“Che schifo. Non si mangiano le persone”, sussurrò Ginevra, stringendosi a Luca.

“Io so tantissime storie spaventose sull’uomo nero”, esclamò Marco entusiasta. “L’anno scorso in colonia le raccontavamo di notte. Brividi!”

Ginevra si irrigidì. La parola “nero” di per sé le sembrava inquietante, figurarsi al buio sotto il tavolo. E a sentire “brividi”, iniziò a tremare.

“Veste tutto di nero. Se qualcuno si distrae, lui lo afferra e lo porta via. E nessuno lo rivedrà mai più. L’uomo nero appare e scompare come un’ombra. Soprattutto adora i bambini. Se un bambino disobbediente scappa dai genitori…”

“Basta! L’hai spaventata!”, lo interruppe Luca, sentendo Ginevra rabbrividire e stringersi ancora di più a lui. “Poi stanotte non dormirà per la paura. È ancora piccola.”

“Non sono piccola”, si offese Ginevra. “Non voglio sentire dell’uomo nero. Fa troppa paura”, la sua voce tremò, sul punto di scoppiare in lacrime.

La porta d’ingresso sbatté. I bambini sotto il tavolo si immobilizzarono. Dall’esterno si udirono passi lenti, cauti, che si fermarono proprio lì vicino. Marco si agitò, Matteo respirò affannosamente. Ginevra si schiacciò contro il petto di Luca. Sentì il suo cuore battere forte e rapido, come un tamburo.

All’improvviso, il bordo della coperta si sollevò. Ginevra chiuse gli occhi e urlò.

“Eccovi qui!”, disse la voce della mamma.

“Mamma!” Ginevra spalancò gli occhi, uscì da sotto il tavolo e le corse incontro.

“Perché avete coperto il tavolo? Cosa stavate facendo?”, chiese la mamma, guardando i ragazzi spettinati che uscivano a loro volta.

“Era una tenda. Ci stavamo dentro e raccontavamo storie paurose”, cinguettò Ginevra.

“E non avevi paura?”, chiese la mamma.

“Sì. E quando ho sentito i passi, ho pensato che fosse l’uomo nero venuto a prenderci e ho avuto ancora più paura.”

“Quale uomo nero?” La mamma lanciò occhiate di rimprovero ai ragazzi, soffermandosi sul viso di Luca. Lui abbassò lo sguardo, colpevole.

“Basta. Smontate la tenda e lavatevi le mani. Tra poco si mangia”, disse la mamma, portando Ginevra in cucina.

Dopo pranzo, Luca e gli altri andarono a giocare a calcio. La mamma mise Ginevra a dormire, ma appena chiudeva gli occhi, le pareva di vedere l’uomo nero.

Quando Luca passò alle medie, Ginevra iniziò la prima elementare. Lui ormai era troppo grande per badare a lei, e anche lei poteva restare da sola. Ma andava spesso da Luca per chiedergli qualcosa o quando c’era un temporale. Ginevra aveva un sacro terrore dei tuoni.

Se i ragazzi andavano al cinema, al pattinaggio o altrove, lei si intrufolava sempre. Se non volevano portarla, sapeva usare le lacrime con maestria. E Luca, impietosito, convinceva gli amici a lasciarla unirsi.

Fu Luca a insegnarle a pattinare, a scaldare la minestra nel microonde, a farle amare i libri d’avventura. All’ultimo anno di liceo, Luca non usciva più con gli amici, ma con una bella compagna di classe, Sofia. Una volta, Ginevra li vide baciarsi dietro casa. Il suo cuore di bambina si spezzò per la gelosia.

Dopo il diploma, Luca entrò in accademia militare. Tornava a casa raramente. Questo la rassicurava—niente ragazze in giro—ma anche la rattristava, perché non lo vedeva e gli mancava tantissimo.

Una volta, tornò in licenza per qualche giorno, ma i suoi genitori non c’erano. Andò dai vicini. Vedendo Luca in uniforme, ormai adulto, Ginevra arrossì. Anche lui notò quanto fosse cresciuta e diventata bella, come se la vedesse per la prima volta. A tavola, la osservava di continuo. Sotto il suo sguardo, le sue lunghe ciglia tremavano e il rossore sullePoi, anni dopo, mentre la pioggia batteva contro i vetri e Ginevra stringeva tra le mani quella vecchia coperta ormai logora, finalmente capì che l’uomo nero non era mai esistito se non nella sua paura di perdere per sempre quel ragazzo che, sotto il tavolo, le aveva insegnato cos’era la felicità.

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