Un giorno sognai di venire da te e dirti che ti amo…
Aurelia De Luca posò l’ultimo quaderno corretto in cima alla pila sul bordo della scrivania. Ora doveva solo trascrivere i voti sul registro. Fuori dalla sala insegnanti, ormai era notte fonda, e i fiocchi di neve danzavano lenti sotto la luce tremula dei lampioni.
Dietro la porta, sentì il tonfo metallico di un secchio e lo schiaffo umido di uno straccio sul pavimento. Era la signora Valeria, la bidella che tutti chiamavano affettuosamente “nonna Vale”, salita al secondo piano per lavare i corridoi. Vedendo la fessura di luce sotto la porta della sala insegnanti, borbottò ad alta voce:
“Eccoli qui fino a tardi, a pestare i pavimenti invece di andarsene a casa…”
Lo scopa sembrava annuire al suo disappunto, strusciando malcontenta sul linoleum.
“Ma a casa nessuno mi aspetta. Dovrai sopportarmi ancora mezz’ora, Valeria,” sospirò fra sé Aurelia, aprendo il registro di classe.
Dopo quaranta minuti, lo richiuse stancamente, lo sistemò sullo scaffale accanto agli altri e trattenne il respiro. Non si era nemmeno accorta che il corridoio era diventato silenzioso. Indossò il cappotto davanti allo specchio, prese la borsa, gettò un’ultima occhiata alla sala e spense la luce. Il pavimento era ancora umido e luccicava debolmente sotto la flebile luce della lampadina alla fine del corridoio.
Scese al piano terra. Anche la postazione del custode era deserta. Entrò nel suo armadietto e appese la chiave nello scaffale a vetri.
“Ho chiuso la sala insegnanti! La chiave è qui!” gridò, rompendo il silenzio della scuola addormentata.
Nessuno rispose, nessuno uscì. Ma sapeva che la scuola non era mai vuota. Di notte, c’era sempre qualcuno.
“Arrivederci!” esclamò uscendo nel freddo pungente.
Dopo pochi passi, si voltò e intravide il custode anziano che chiudeva il portone dall’interno.
Il ghiaccio lucido del cortile, segnato dalle centinaia di passi degli studenti, era già ricoperto da un velo di neve sottile. Aurelia attraversò con cautela il piazzale e uscì dal cancello di ferro.
La strada era deserta, le macchine rare. Affrettò il passo verso casa.
Fin da bambina, Aurelia giocava a fare la maestra con le bambole e le amiche. Con una madre insegnante di italiano e storia, cosa poteva aspettarsi? Il liceo la portò dritta alla facoltà di Lettere e Filosofia.
Gli uomini erano pochi in quel corso, e quelli che c’erano cercavano solo le ragazze più avvenenti. Lei non si considerava così. Perciò, alla laurea, non aveva né marito né fidanzato.
Non se ne curava. C’era tempo. Sembrava più giovane dei suoi anni, spesso scambiata per una studentessa. Sua madre, però, si preoccupava. Diceva che l’insegnamento ti segnava il carattere, e più tempo passava, più sarebbe stato difficile trovare un compagno adatto. I genitori le comprarono un appartamento, per darle libertà.
Ma a che serviva la libertà, se anche il corpo docente era tutto al femminile? A parte il prof di educazione fisica, che amava tutte indistintamente, il vecchio militare di educazione civica con tre nipoti, e i due custodi pensionati.
“Che tu non debba vivere il mio destino: sposarti tardi e avere un unico figlio a quarant’anni,” sussurrava sua madre con preoccupazione.
Ma i discorsi servivano a trovare un marito?
Le luci di Natale tremolavano in molte finestre. Aurelia non aveva intenzione di mettere l’albero. Perché? Tanto avrebbe festeggiato dai genitori, come sempre. Svoltò in un vicolo tranquillo e sentì passi alle sue spalle. Un brivido le corse lungo la schiena, e si voltò.
Un uomo la seguiva a distanza. Il cappuccio gli copriva il volto nell’ombra. Lei strinse la borsa e accelerò.
All’angolo, si nascose contro il muro, trattenendo il fiato. L’uomo non passò. Dopo qualche secondo, sbirciò e si trovò faccia a faccia con lui.
“Cosa vuole? Perché mi segue? Chiamo la polizia!” la voce le tremava. “Aiuto!” gridò per convincerlo.
L’uomo si scoprì il volto.
“Aurelia, sono io, Paolo Moretti,” sorrise.
“Paolo?” Non riconosceva quel ragazzo alto e robusto, un ex alunno della sua prima classe. “Vuoi rapinarmi?” chiese, gli occhi sgranati.
“Ma no! Da giorni la accompagno a casa. Fa buio presto, i cortili sono bui, e questi non sono tempi sicuri. Oggi si è trattenuta tanto a scuola.”
“Da giorni?” sussurrò. “Non me n’ero accorta. Oggi è vero, sono uscita tardi,” sospirò. “Correggevo i compiti.”
“Avete già fatto l’albero a scuola?” chiese Paolo, ancora sorridente.
“Sì, ieri.” Finalmente, anche lei sorrise.
“Quanto mi piaceva quando mettevano l’abete vero in corridoio, profumato di festa e regali. Era difficile studiare negli ultimi giorni prima di Natale,” disse sognante. “Posso accompagnarla?”
“Non serve, Paolo,” rispose, ormai tranquilla. “È vicino.”
“Non si preoccupi. Non ci vediamo da tempo. E poi…” abbassò la voce, “sono vicino davvero.”
Camminarono per la strada deserta. Lei gli chiese della sua vita, del lavoro. Lui le raccontò di un lavoro vario: riparava e vendeva computer. Sperava di aprire un negozio con un amico.
“Lo conosce. È Stefano Rinaldi. Se avesse bisogno, posso aiutarla.”
Si fermarono davanti al suo palazzo.
“L’ho accompagnata tante volte, ma non ho mai visto luce alle sue finestre. Significa che nessuno l’aspetta,” disse guardando su.
“Dovresti fare il detective,” scherzò lei, ringraziandolo e dirigendosi al portone.
“Non mi invita a salire?” la voce di Paolo la fermò.
“È tardi. Sono stanca,” rispose, voltandosi.
Il giorno dopo, lasciò la scuola presto. Non aveva neppure il tempo di cambiarsi che il campanello suonò. Pensando fosse sua madre in sopralluogo, aprì.
Paolo era lì, con un abete legato stretto e una scatola di cartone piena di decorazioni.
“Buonasera, Aurelia. Ho pensato che non avesse l’albero. Ho portato anche le palline.” Sorrideva, speranzoso.
“Grazie, ma non volevo metterlo. Tanto festeggio dai miei.” Vide la sua espressione spegnersi. “Entra pure.” Gli aprì la porta, sorridendo a sua volta.
L’abete, posato vicino alla finestra, riempì l’appartamento del suo aroma fresco. Lo decorarono insieme, le dita che si sfioravano, creando un imbarazzo dolce. Poi, bevvero un tè in cucina.
“Posso chiamarti Aurelia? Non siamo più a scuola. E poi, il nome e cognome è troppo formale.”
Le piacque che non l’avesse chiamata “Aura”. Detestava quel nome, le ricordava un vecchio film con una voce troppo infantile.
“Ho visto che i tuoi amici ti chiamano così sui social,” aggiunse, senza vergogna.
“Cos’altro sai di me?” chiese, improvvisamente tesa.
Lui rise. “Non sarebbe troppo ardito passare al ‘tu’? Non siamo più insegnante e alunnoE quella notte, mentre le luci dell’albero tremolavano nel buio, Aurelia capì che forse il regalo più bello era stato aspettarla proprio lì, per anni, senza mai arrendersi.