Oggi ho ripreso a lavorare ai miei ferri a maglia quando ho sentito un rumore alla porta d’ingresso. Non mi aspettavo nessuno a quell’ora. Erano le nove e mezza di sera, i vicini dormivano già, e mia nipote Giulia veniva solo nei weekend.
La serratura scattò, la porta cigolò. Nella hall si udirono passi pesanti e un respiro affannato.
«Chi è?» gridai, afferrando il bastone.
«Sono io, mamma», rispose una voce familiare.
Il cuore mi fece un balzo. Quella voce non la sentivo da un anno e mezzo. Mio figlio Marco se n’era andato di casa dopo l’ennesima sbronza e non si era più fatto vivo. Ogni tanto mandava un messaggio per dire che era vivo, niente più.
«Marco?» chiesi, esitante.
«Sì, mamma, sono io. Non spaventarti.»
Mi alzai dalla poltrona e, appoggiandomi al bastone, raggiunsi l’ingresso. Accesi la luce. Sulla porta c’era mio figlio, con la barba incolta, una giacca sgualcita e i jeans sporchi. Sembrava malconcio, ma almeno era sobrio.
«Marco!» Lo abbracciai, nonostante l’odore sgradevole. «Figlio mio, quanto mi sei mancato!»
«Anche a me, mamma. Perdonami», mi strinse a sé. «So di aver combinato un sacco di guai.»
Mi allontanai un attimo e lo osservai bene. Era dimagrito, con gli occhi infossati, ma lo sguardo era lucido. Non ubriaco.
«Vieni, siediti», dissi, agitandomi. «Ti scaldo qualcosa da mangiare.»
«Aspetta, mamma», mi prese la mano. «Non sono venuto da solo.»
«Come sarebbe?»
Si voltò verso la porta e chiamò a bassa voce: «Vieni, non aver paura.»
Da dietro di lui sbucò una figurina minuta. Una bambina di cinque o sei anni, con un vestitino rosa sporco e sandali consumati. Capelli biondi ricci, grandi occhi grigi pieni di timore.
«Santo cielo! Chi è?»
«Mamma, questa è Sofia», disse Marco, mettendo una mano sulla spalla della piccola. «Mia figlia.»
«Tua figlia?» Caddi sullo sgabello nell’ingresso. «Che vuoi dire? Da dove?»
«È una lunga storia, mamma. Prima pensiamo a darle da mangiare e a lavarla. È stanca, abbiamo viaggiato tutto il giorno.»
Sofia si stringeva a suo padre e taceva. Solo i suoi grandi occhi scrutavano l’ambiente sconosciuto.
«Certo, piccola, hai fame? Vuoi qualcosa da mangiare?»
La bambina annuì, ma non si mosse da Marco.
«Venite in cucina», dissi, zoppicando leggermente. «Vi preparo qualcosa.»
Marco sedette a tavola con la figlia. Sofia guardava incuriosita la cucina, piccola ma accogliente, con i fiori sul davanzale, le tendine di pizzo e la macchinetta del caffè sulla mensola.
«Mamma, hai qualcosa per lei? Latte, farina per una pastina?»
«C’è il latte, lo scaldo. E la pastina è pronta in un attimo», mi mossi in fretta. «Ti piace la pastina, Sofia?»
Annuì di nuovo.
Mentre cucinavo, Marco spiegava alla bambina dove si trovavano.
«Questa è la casa della nonna, tesoro. Qui sono cresciuto io. Vedi che bei fiori? E domattina, se fa bel tempo, ti faccio vedere il cortile. Ci sono le altalene.»
«E la mamma quando arriva?» chiese Sofia con una vocina sottile.
Marco esitò.
«Sofì, la mamma non arriva. Te l’ho detto, abbiamo parlato, ricordi?»
La bambina abbassò lo sguardo.
«È morta?»
«Sì, piccola. È morta.»
Io, voltata verso i fornelli, sobbalzai. Quale madre? Cosa era successo? Quante sorprese mi avrebbe riservato mio figlio?
Posi davanti a Sofia una ciotola di pastina al pomodoro e un bicchiere di latte caldo.
«Mangia, tesoro. Poi ti faccio il bagno e andiamo a letto.»
La bambina assaggiò con cautela, poi iniziò a mangiare con appetito.
«Ti piace?»
«Sì», annuì a bocca piena.
«Brava, mangia pure.»
Anche Marco mangiò, ma senza entusiasmo. Non faceva che guardare la figlia, aggiustarle il tovagliolo, avvicinarle il bicchiere.
«Marco», sussurrai, «dobbiamo parlare.»
«Lo so, mamma. Ma prima sistemiamo Sofia.»
La bambina ormai faceva fatica a tenere gli occhi aperti. Il viaggio doveva essere stato faticoso.
«Andiamo, stellina», presi la mano di Sofia. «Ti laviamo e a nanna.»
In bagno la aiutai a spogliarsi. Il vestitino era davvero sporco, i sandali quasi distrutti. Sotto i vestiti, il suo corpicino magro era segnato da lividi.
«Sofì, cosa sono questi?» chiesi delicatamente, indicandole le macchie scure su braccia e gambe.
«Sono caduta», rispose breve.
«Cadi spesso?»
Si strinse nelle spalle senza rispondere.
Riempii la vasca d’acqua tiepida e la misi dentro. Rimase zitta, giocando con la schiuma, ogni tanto osservandomi.
«Come ti chiami?» chiese all’improvviso.
«Maria Luisa. Ma puoi chiamarmi nonna.»
«Nonna», ripeté, assaporando la parola.
«Esatto. Quanti anni hai?»
«Cinque. Presto sei.»
«Grandina! A settembre vai a scuola.»
Annuì.
«La mamma diceva che sono brava. So già leggere un po’.»
«Che intelligente! Domani mi leggi qualcosa, d’accordo?»
Per la prima volta quella sera, Sofia sorrise.
Dopo il bagno, l’avvolsi in un asciugamano e la portai in camera mia. Non avevo un letto per lei, così la sistemai sul mio.
«Dormirai qui», dissi, coprendola. «Io vado sul divano.»
«No, resta», si spaventò. «Io sono piccola, non occupo tanto spazio.»
«Va bene», acconsentii. «Dormiamo insieme.»
Si addormentò poco dopo.
Io tornai in cucina. Marco fumava a tavola.
«Non fumare in casa», dissi.
«Scusa», spense la sigaretta. «Sono nervoso.»
«Non c’è da stupirsi. Adesso raccontami tutto.»
Si passò le mani sul viso.
«Mamma, è complicato.»
«Ho tutto il tempo.»
Si alzò, fece due passi, poi tornò a sedersi.
«Un anno e mezzo fa sono andato via dopo l’ennesima lite con i vicini…»
«Te lo ricordo. Eri ubriaco, hai combinato un casino.»
«Sì. Mi vergognavo troppo. Pensai che era meglio andarmene.»
Tacqui. Quel giorno lo ricordavo bene. Marco, ubriaco, aveva litigato con il vicino per una stupidaggine. Arrivò persino la polizia.
«Sono andato da Carlo, mi ricordi? L’amico dell’esercito. Viveva fuori città, in una casa in campagna.»
«E poi?»
«Facevamo lavori saltuari. Lui nei cantieri, io lo aiutavo. Guadagnavamo, ma io bevevo tutto.»
Fece una pausa.
«Vicino a noi viveva una donna con sua figlia. Si chiamavaE mentre Sofia si addormentava serena tra le mie braccia, capii che la mia casa finalmente era di nuovo piena d’amore.