La tormenta di neve era tremenda. Le strade erano bloccate, impossibile camminare o guidare. La porta del condominio non si apriva, sepolta da tre metri di neve, e non c’era modo di scavarsi un varco. Dopotutto, non era una città del nord, e le case non erano progettate per simili capricci della natura. Una vera catastrofe, senza scherzi.
E quella notte, il padre di Beatrice stava morendo.
Un ictus. Niente ambulanza, niente soccorsi disponibili. Solo lei, giovane neurologa, e il piccolo armadietto dei medicinali di casa.
Il papà era caduto in cucina mentre metteva la pentola sul gas. Beatrice non aveva visto l’accaduto, ma riconoscere un ictus era compito da studente del primo anno. Per lei non fu difficile diagnosticare l’apoplessia e capire che, senza un ospedale, non sarebbe arrivato al mattino.
Chiamò tutti, perfino la polizia. La risposta fu sempre la stessa: *”La sua richiesta è stata registrata. I nostri operatori arriveranno appena possibile.”*
Nessuno sarebbe venuto in aiuto, era chiaro. Ma non si sarebbe perdonata se non avesse provato tutto. Trascinò il padre sul letto con fatica, mentre lui borbottava, paralizzato. Niente anticoagulanti. Allora aspirina, poi prednisone per via endovenosa, contro l’edema cerebrale. La pressione era bassa, niente bisoprololo.
Non restava che aspettare. Beatrice agiva come un automa. Seguendo i protocolli, i manuali. Senza emozioni, solo un vuoto dentro.
Poi, come se non bastasse, saltò la luce. L’appartamento diventò buio e opprimente, come se i mobili si fossero gonfiati e l’aria si fosse addensata in uno sciroppo pesante. Il respiro del padre era rauco ma regolare. Senza lamenti, già un sollievo. Lei, invece, sembrava non respirare affatto.
*”Presto sarà mattina,”* mormorò, solo per sentire la propria voce, per ricordarsi di essere viva.
E in quel preciso istante, bussarono alla porta con un colpo secco.
Beatrice ebbe un sussulto, tra paura e sollievo. Era arrivato qualcuno! Si lanciò verso l’ingresso, urtando ogni mobile lungo il percorso. Aprì la serratura e la luce accecante di una torcia la investì.
*”Ciao,”* disse una voce maschile dall’altro lato, fin troppo familiare.
Era solo il vicino, quel tipo insopportabile di nome Fabrizio, eterno adolescente quarantenne. Non lo sopportava. Un irresponsabile che poteva girare per mesi con i capelli incolti come un selvaggio, poi radersi a cresta e tingersi di verde acceso, litigare con il vigile urbano, commettere mille follie. Viveva senza lavorare, senza regole.
Per lei, che aveva passato l’adolescenza sui libri di anatomia, la sua esistenza era un insulto. Gente come lui non meritava di vivere in una società civile.
Voleva sbattergli la porta in faccia, ma Fabrizio mise il piede sullo stipite con insolenza.
*”Tutto bene?”* chiese.
*”Togli il piede,”* rispose glaciale.
Ogni volta che lo incrociava, rabbrividiva.
*”Va bene,”* ritirò il piede e abbassò la torcia. *”Pensavo potessi aver bisogno d’aiuto.”*
*”Non dal tuo.”*
*”Quindi ne hai bisogno,”* intuì Fabrizio. *”Hai acqua?”*
*”Santo cielo, nel bollitore! O dal rubinetto!”* cercò di chiudere di nuovo.
Ma lui lasciò una tanica da cinque litri sull’uscio e se ne andò.
*”Che odioso,”* borbottò Beatrice.
Poi si ricordò e corse in cucina. I rubinetti gemevano, le tubature erano a secco. La tanica rimase lì, come un miraggio.
Poco dopo, Fabrizio tornò con pile e torce. Lei, dottoressa, non ci aveva pensato.
*”Vorrei mandarti al diavolo,”* ammise Beatrice, prendendo la torcia.
*”Fallo pure,”* scrollò le spalle. *”Com’è tuo padre?”*
*”Ma che t’importa?”*
*”Non ci ho bevuto insieme. Com’è?”* chiese, serio.
*”Ictus…”* le sfuggì. *”Ci vuole un’ambulanza…”*
Fabrizio scomparve dietro la sua porta sgangherata. Beatrice rimase sola. Con suo padre morente, l’acqua e la torcia.
*”È un delinquente, papà. Un alcolizzato da strada…”*
La torcia fu una benedizione. Controllò la pressione, trovò il glucagone e preparò la flebo. Provò ad accendere il gas, ma anche quello era morto.
Voleva piangere. Lei, neurologa qualificata, incapace di salvare l’unica persona che amava. Per colpa di un po’ di neve? A cosa erano serviti gli anni di studio? Mai si era sentita così inutile.
Poi Fabrizio riapparve.
*”Sei nei guai, Beatrice. Lo sento,”* era vestito come un esploratore polare, con uno zaino zeppo di indumenti pesanti.
*”Non ti credo, ma entra,”* cedette.
*”Rifiuto l’invito,”* varcò la soglia. *”Possiamo portare tuo padre. Tu sai curarlo, io so camminare nella neve. Lui è un combattente. Ce la faremo.”*
Tirò fuori un sacco a pelo gigante.
*”Mettiamoci dentro il tuo vecchio. Hai stecche?”*
*”Sì. Le applico,”* rispose automaticamente, sorpresa dalla propria sicurezza.
*”Prima le stecche, poi il sacco,”* ordinò Fabrizio.
Di solito, era lei a comandare. Ma quella notte non le serviva la logica. Le serviva aiuto, speranza. E l’uomo più odioso glieli offrì senza chiedere nulla.
*”Dove pensi di arrivare?”* chiese, fissando la stecca cervicale.
*”L’ospedale è a un chilometro e mezzo,”* spiegò. *”Se la montagna non va da Maometto…”*
*”Vuoi dire che andremo a piedi? Nella neve?!”* esclamò.
*”Sì. A medicina non lo insegnano. Ma io non so fare flebo. Ognuno ha le sue competenze,”* borbottò Fabrizio. *”Tuo padre ha problemi alla schiena?”*
*”Chi?”* poi capì. Non era facile accettare che suo padre, ex colonnello dei Carabinieri, fosse solo *”il vecchio”* per gli altri.
*”Ernia L5-S1, ma lieve,”* rispose meccanicamente.
*”Posso portarlo io per due piani? O servono barelle?”*
*”Barelle. Assolutamente.”*
*”Aspetta…”* scomparve nelle tenebre.
Poi rumori metallici, voci soffocate. Una discussione infinita. Finché non ruggì:
*”Andate a fanculo, ricchi sfaticati! E tu, Luca, non farti vedere qui, ti spacco il muso!”*
Beatrice sospirò. Non ce l’avrebbero fatta.
Poi altri rumori. Passi sulle scale.
*”Entrate piano, non rompete niente,”* ordinò Fabrizio, ricomparso.
Attraverso di lui passarono i vicini del secondo piano, una coppia modesta, sempre in difficoltà. Gente che Beatrice giudicava *”poveracci”*. Ma quei *”poveracci”* avevano barelle fatte di tubi e teli militari.
Infilò il padre nel sacco a pelo, lo sistemò sulle barelle. FabrizioE mentre lo sguardo di Beatrice incrociò quello di Fabrizio, finalmente capì che a volte l’aiuto arriva dalle persone più inaspettate, e che il vero coraggio sta nell’accettarlo.