Lucia si svegliò di soprassalto per il rumore. Ancora una volta. Qualcosa veniva scaraventato, rompendosi contro il pavimento. L’orologio segnava le sei e mezza di mattina. Domenica, accidenti. L’unico giorno in cui poteva dormire almeno fino alle otto.
“Mamma!” urlò Marco dalla cucina. “Dov’è la mia tazza? Hai spostato di nuovo tutto!”
Cinquantadue anni. Si alzò dal letto, infilò la vestaglia. Nello specchio, il viso stanco di una donna che non ricordava l’ultima volta che aveva dormito bene. Capelli grigi con le radici sfiorite, occhiaie pronunciate. Quando era invecchiata così?
“Arrivo, arrivo,” mormorò, trascinandosi in cucina.
Marco era in piedi in mezzo al caos. Per terra, i cocci di un piatto, probabilmente quello che aveva lanciato nella ricerca disperata della sua preziosa tazza. Venticinque anni, un metro e ottanta di statura, spalle larghe. Eppure si comportava come un bambino viziato di tre anni.
“Ecco la tua tazza,” disse Lucia, prendendo dalla credenza una tazza blu con la scritta “Miglior Figlio”.
L’aveva comprata anni prima, quasi sette. Allora credeva ancora che avrebbe cambiato atteggiamento, trovato un lavoro, iniziato a vivere come una persona normale. Ora quella scritta sembrava una beffa.
“E perché l’hai messa lì? Te l’ho detto mille volte, la mia tazza deve rimanere sul tavolo!”
“Marcolino, ho lavato i piatti ieri sera…”
“Non sono Marcolino! Sono Marco! Quante volte devo dirtelo!”
Le strappò la tazza di mano, versandoci dentro i resti del tè freddo dalla teiera. Lucia fissò i cocci e pensò: ecco, di nuovo da pulire. Di nuovo da comprare un piatto nuovo. Di nuovo da sopportare.
“Mamma, cosa è successo?” Sulla porta apparve Anna. Esile, fragile, nel pigiama logoro. Diciannove anni, ma ne dimostrava sedici. Studiava pedagogia, sognava di lavorare con i bambini. Se avesse finito gli studi. Se avesse resistito a quell’atmosfera in casa.
“Niente, piccola. Si è rotto un piatto.”
“Si è rotto da solo, vero?” sbuffò Marco. “Certo, si è lanciato per terra.”
Anna prese la scopa e raccolse i cocchi in silenzio. Abitudinaria, come se piatti rotti al mattino fossero normali.
“Non toccare!” ringhiò Marco. “Non ti ho chiesto di pulire!”
“E allora chi lo farà?” chiese piano Anna.
“Non è affar tuo!”
Lucia si sedette al tavolo, appoggiando la testa tra le mani. Dio, fino a quando? Fino a quando avrebbe dovuto sopportare quelle urla, quei litigi, quella… guerra in casa sua?
Dieci anni prima era morto Sergio. Suo marito, padre dei ragazzi. Un infarto. O forse aveva semplicemente smesso di voler vivere in quel mondo pazzo. Allora Marco era ancora all’università. O meglio, l’aveva lasciata dopo sei mesi. “Non mi piace,” aveva detto. Poi un lavoro in un negozio: due settimane. Licenziato perché il capo era “un idiota”. Poi il cantiere: anche lì non andava bene. I colleghi erano “cretini”. L’autolavaggio: il proprietario “uno sfruttatore”. E così, anno dopo anno. Prima Lucia aveva sperato che trovasse la sua strada. Poi lo aveva pregato di provarci. Poi supplicato. Infine, si era rassegnata.
Lui, intanto, diventava sempre più aggressivo. Contro il mondo, contro la vita, contro loro due. Ma soprattutto contro di lei. Era colpa sua se era un fallito. Era colpa sua se non l’aveva cresciuto bene. Era suo dovere mantenerlo, nutrirlo, vestirlo.
“Mamma, cosa c’è per colazione?” Marco si lasciò cadere sulla sedia.
“Uova, qualche biscotto…”
“Sempre le stesse cose! Comprati dei cornetti decenti!”
“Marco, i cornetti li abbiamo comprati ieri. Li hai finiti in due giorni.”
“Allora comprane altri!”
“Con cosa? Lo stipendio arriva tra una settimana.”
“Affari tuoi!”
Lucia aprì il frigo. Mezza ricotta, tre uova, un pezzo di pane. Mancavano sette giorni allo stipendio. Anna cercava di aiutare, distribuendo volantini nel weekend. Trenta euro al giorno. Giusto per il biglietto dell’autobus e un panino all’università.
“Posso farti le uova,” disse.
“Col prosciutto!”
“Non c’è prosciutto.”
“Allora niente! Basta con questa miseria!”
Si alzò, dando un calcio alla sedia, che cadde con un tonfo.
“Marco, smettila,” sussurrò Anna.
“E tu non dirmi cosa fare!” si girò verso la sorella. “Credi di essere migliore di me? Con la tua università da sfigati?”
“Non ho detto niente…”
“Sì, invece! Mi guardi come se fossi… come se fossi…”
“Marco, calmati,” si mise in mezzo Lucia.
“E tu stai zitta! Basta con voi due! È come vivere in prigione! In questo buco di merda!”
“Nessuno ti tiene qui per forza,” le sfuggì a Lucia.
Marco si irrigidì. Si voltò lentamente verso di lei.
“Cosa hai detto?”
“Niente. Non ho detto niente.”
“Hai detto che nessuno mi tiene qui? Stai insinuando che devo andarmene?”
“Mar…”
“Rispondi! Vuoi che me ne vada?”
Lucia tacque. Ma dentro di sé, un sì risuonava. Dio, quanto lo desiderava! Svegliarsi al mattino in silenzio. Non sussultare a ogni rumore. Non camminare in punta di piedi nella propria casa.
“Non parli? E allora sappi che non me ne andrò da nessuna parte! Questa è casa mia quanto tua! Ci sono residente!”
“L’appartamento è intestato a me,” disse piano Lucia.
“E con ciò? Sono tuo figlio! Ho dei diritti!”
“Hai dei doveri,” rispose lei, sorpresa dalle sue stesse parole. “Sei un uomo adulto. Hai venticinque anni.”
“Eccoci!” Marco sbatté un pugno sul tavolo. “Sono un figlio di merda! Sono un fannullone! Io…”
“Mi urli contro ogni giorno!” Lucia sentì qualcosa dentro di sé cedere. “Non fai niente! Vivi alle mie spalle e poi hai pure il coraggio di accusarmi!”
“Zitta!”
“No! Sono stanca! Capisci? Stanca! Ho cinquantadue anni, lavoro come una bestia per mantenere due figli adulti!”
“Uno studia e ti aiuta,” intervenne Anna. “L’altro…”
“Chiudi la bocca!” Marco fece un passo verso la sorella.
“NON TOCCARLA!” urlò Lucia. “Non osare alzare la voce con lei!”
“E che mi farai? Chiamerai i carabinieri? Fallo pure! Non è la prima volta!”
I carabinieri… Lucia li aveva chiamati davvero. Tre volte nell’ultimo anno. Arrivavano due signori in divisa, chiedevano cosa fosse successo. Lei raccontava. Loro scuotevano la testa, parlavano con Marco. Lui diventava un agnellino: si scusava, prometteva di cambiare. Se ne andavano. E dopo due giorni, tutto ricominciava.
“Sai cosa?” disse Marco. “Basta rompermi le scatole! Vado a dormire!”
Sbatté la porta. Lucia e Anna rimasero in cucina. Tra i cocci, la sedia rovesciata e una vita in frantumi.
“Mamma,” sussurrò Anna. “Perché non vaiFinalmente, dopo mesi di silenzio, Lucia ricevette una cartolina da Genova, dove Marco aveva trovato lavoro in un cantiere navale, e capì che, a volte, l’amore più grande è saper lasciare andare.