Tre giorni senza una chiamata
Valentina Rossi si avvicinò al telefono per la quarta volta quella mattina, sollevò la cornetta, ascoltò il segnale e la riappese. L’apparecchio funzionava perfettamente, quindi il problema non era tecnico. Gettò un’occhiata all’orologio: erano le dieci e mezza. Di solito, Marco chiamava alle nove in punto, appena arrivava al lavoro, ma quel silenzio durava già da tre giorni.
«Forse si è ammalato?» mormorò, asciugando la polvere dal tavolino accanto al telefono. «O forse lo hanno mandato in trasferta all’improvviso?»
Ma suo figlio la avvisava sempre prima di partire, era una loro regola non scritta. Valentina si versò una tazza di tè, ma le sembrò amaro nonostante avesse aggiunto lo zucchero come al solito. Si sedette vicino alla finestra, osservando il cortile. La vicina, Giuseppina Bianchi, stendeva il bucato canticchiando allegramente. I suoi figli la chiamavano ogni giorno, i nipoti venivano ogni weekend. E Marco?
Il telefono squillò all’improvviso, stridente. Valentina corse a rispondere, quasi rovesciando la sedia.
«Pronto! Marco?»
«Mi dispiace, ha sbagliato numero» rispose una voce femminile sconosciuta.
«Ah, scusi…»
Riappese lentamente. Il cuore le batteva in gola. Ecco come si era agitata per una semplice chiamata! Tornò alla finestra, ma non riusciva più a concentrarsi su ciò che accadeva fuori. I pensieri si confondevano, uno peggiore dell’altro.
Marco faceva l’autista per una ditta di trasporti, viaggiava per la regione e qualche volta oltre. E se fosse successo un incidente? Al telegiornale non facevano che parlare di incidenti stradali. Valentina si alzò di scatto e cominciò a camminare su e giù per la stanza. Le mani le tremavano quando prese di nuovo il telefono e compose il numero del figlio.
«Il numero chiamato è momentaneamente irraggiungibile» rispose la voce automatizzata.
«Mio Dio, che è successo?» sussurrò.
Ricordò la loro lite di una settimana prima, una sciocchezza. Marco era venuto a trovarla e lei aveva cominciato a chiedergli della sua vita sentimentale, perché non si fosse ancora sposato, perché continuava a rimandare. Lui si era irrigidito, dicendo che non era il momento, che doveva sistemarsi meglio. Ma lei aveva insistito: a trentacinque anni era ora di mettere su famiglia.
«Mamma, lascia stare, ti prego» aveva detto Marco, stanco. «Ho già abbastanza problemi.»
«Quali problemi? Hai un lavoro, una casa, una macchina… Cos’altro ti manca?»
«Mi manca un po’ di comprensione» aveva borbottato, andandosene prima del solito.
Valentina si era offesa, rimuginando tutta la sera. Adesso rimpiangeva ogni parola. Forse Marco era ancora arrabbiato e non chiamava apposta? Ma no, suo figlio non era rancoroso, questo lo sapeva bene.
A pranzo l’ansia divenne insopportabile. Valentina si vestì e andò da Giuseppina, che abitava nel palazzo accanto. La vicina la accolse sorpresa.
«Valentina! Che succede? Hai una faccia…»
«Giuseppina, posso entrare? Sono distrutta.»
«Certo, accomodati. Vuoi un caffè?»
Si sedettero in cucina. Valentina raccontò delle sue preoccupazioni, e Giuseppina ascoltò, annuendo di tanto in tanto.
«Ascolta, sei andata a casa sua?» chiese alla fine.
«Come faccio? Non ho le chiavi. E poi, non mi sembra educato presentarmi senza invito…»
«Ma che dici? Sei sua madre! Vai, bussa alla porta. Magari sta male, ha la febbre, ecco perché non chiama.»
«E se non c’è?»
«Allora chiedi ai vicini. Le persone capiscono, sanno cos’è il cuore di una madre.»
Valentina ci pensò su. L’idea era sensata, anche se la spaventava. E se Marco non fosse solo? Se avesse qualcuno con sé e non glielo avesse detto? Sarebbe stato un momento imbarazzante.
«Giuseppina, forse è meglio aspettare? Magari domani chiama…»
«Valentina, dici che non si fa sentire da tre giorni. Non è da lui. Meglio assicurarsi che stia bene piuttosto che tormentarsi così.»
Quella sera Valentina non trovò il coraggio di andare da Marco. Andò a letto, ma non riuscì a dormire. Si rigirò fino all’alba, ascoltando ogni rumore. E se il telefono avesse squillato? Ma rimase muto.
La mattina del quarto giorno non ne poteva più. Si preparò e andò all’indirizzo che conosceva a memoria. Marco abitava in un quartiere nuovo, in un palazzo di nove piani. Valentina salì al quinto piano, si fermò davanti alla porta familiare e tirò un respiro profondo.
Premette il campanello. Silenzio. Aspettò e suonò di nuovo. Qualcosa si mosse dietro la porta, poi passi.
«Chi è?» La voce di Marco era roca, stanca.
«Marco, sono io, tua madre.»
Una lunga pausa. Poi il suono delle serrature, la porta socchiusa. Marco era in pantofole e una maglietta sgualcita, con la barba lunga e il viso stanco.
«Mamma? Che c’è?»
«Marco!» Valentina fece un passo avanti per abbracciarlo, ma lui indietreggiò.
«Entra» borbottò, tornando in salotto.
L’appartamento era in disordine. Piatti sporchi, lattine di birra vuote, un posacenere pieno. Marco non fumava, ma evidentemente aveva avuto ospiti. Sul divano, lenzuola arruffate.
«Figlio mio, che succede? Sono preoccupata, non chiami da tre giorni…»
Marco si lasciò cadere sulla poltrona, si passò una mano sul viso.
«Mamma, non è il momento di parlare.»
«Come non è il momento? Stai male? Hai la febbre?» Tentò di toccargli la fronte, ma lui la scostò.
«Non sto male. Solo che…» Si interruppe, fissando il vuoto.
«Che cosa? Marco, mi stai spaventando!»
Rimase in silenzio a lungo, poi parlò senza guardarla:
«Mi hanno licenziato.»
«Licenziato? Perché?»
«Ho distrutto il furgone. Colpa mia. Ora devo pure pagare i danni.»
Valentina si sedette sul bordo del divano. Adesso tutto aveva senso: il silenzio, il disordine, quell’aria perduta.
«Marco, perché non me l’hai detto subito? Credi che ti avrei rimproverato?»
«Che dovevo dire? Ho rovinato tutto. Il lavoro, la reputazione… Ora non ho soldi, non posso pagare il mutuo.» La voce gli si incrinò.
Valentina si alzò, gli si sedette accanto. Questa volta non si tirò indietro quando lei gli prese la mano.
«Marco, è davvero così grave? Troverai un altro lavoro, tutto si sistemerà. L’importante è che tu sia sano e salvo.»
«Mamma, non capisci. Ho trentacinque anni e sono ancora qui come un ragazzino: niente famiglia, niente soldi, niente un vero mestiere. Solo debiti.»
«Però hai una madre che ti vuole bene. E le tue mani d’oro, troverai di che lavorare.»
Marco sorrise amaramente:
«MValentina gli strinse la mano e sussurrò: “Finché ci siamo noi due, nessuna tempesta sarà mai abbastanza forte da spegnere la nostra luce”, e in quel momento Marco capì che il vero coraggio non stava nel non cadere mai, ma nel lasciarsi aiutare a rialzarsi.