Sotto un velo di silenzio, una madre affronta la festa.

Silvia cercava di ingoiare le lacrime, per non rovinare la festa. Si sistemò la maglia sul ventre ormai prominente e, spingendo la sedia a rotelle del figlio, aprì la porta del bar.

Una domenica come tante, quando le mamme di bambini disabili di Viterbo si incontravano al “Caffè degli Angeli” per respirare un po’, lontano dalle terapie infinite e dalle battaglie per una vita normale. Si erano organizzate da sole, senza sponsor né fondazioni. Il locale chiudeva al pubblico solo per loro. La proprietaria offriva tè, pasticcini e accendeva il karaoke. E così, quelle mamme si trasformavano di nuovo in donne giovani, che ridevano, cantavano, chiacchieravano e si prendevano in giro.

Silvia ci andava sempre, anche quando non aveva voglia di muoversi. Perché era il suo rifugio, dove la capivano. Ma quella sera rimaneva in silenzio, senza sapere come dire alle amiche che era incinta, e che il marito aveva fatto le valigie, dicendo che il peso era troppo grande. Un secondo figlio non doveva nascere, visto che il primo aveva una paralisi cerebrale. Ma Silvia si era rifiutata di abortire, e dopo tre mesi il marito viveva già con un’altra, mentre a lei erano bastati pochi euro di benzina per portare il figlio al bar.

«E allora, spara, cosa succede?» le si avvicinò Giulia Rossetti, forte, bella, piena di vita. Sua figlia, Beatrice, era anche lei su una sedia a rotelle, ma grazie alla madre aveva vinto premi di canto in tutta Europa, e viveva una vita piena di gioia.
Silvia stava per piangere, ma Giulia la interruppe:
«Si capisce tutto. Se n’è andato? Pazienza. Ma dimmi, quali risorse hai ancora? Cosa può aiutarti davvero a tirar su i tuoi ragazzi?»
«Niente» singhiozzò Silvia.

«Ma che dici! Dio non è sparito, no? E Dio agisce attraverso le persone, ricordi? Prendi il microfono, cantiamo insieme, beviamo un tè, e poi a casa ci penserai meglio. E leggi quel racconto della psicologa Martini sulle risorse. Cercalo. L’ho trovato illuminante. C’è sempre una via, Silvia. Non puoi buttare via un miracolo…»
E così Silvia cantò e rise, mentre i volontari di una fondazione si occupavano del figlio. Le avevano avvolto dei dolcini da portare a casa, e per la prima volta lei non tremò alla vista del suo appartamento vuoto.

Risorse, risorse… Quella notte, dopo aver messo a letto il figlio e ascoltato il suo «Mamma, ti voglio bene, ce la faremo insieme», Silvia si sedette a scrivere tutto ciò che aveva.
Ecco il primo. Anzi, il secondo. C’era Dio, che certamente era vicino e la amava. Poi c’era suo figlio di undici anni, sì, su una sedia, ma con una mente lucida e un cuore enorme. Lui l’avrebbe aiutata con la bambina. Era la sua ispirazione!
Ma dopo non sapeva cosa scrivere… La lista sembrava corta, e Silvia non dormì tutta la notte.

Al mattino si alzò a fatica, ma non poteva perdere la Messa, non in quelle condizioni.
«Signore, Signore!» pregava senza sosta nella sua chiesa preferita, quella della Santissima Trinità, a Viterbo. Il parroco sognava da anni di costruire un centro per bambini disabili. Dopo la funzione, si avvicinò a Silvia e le diede dei pacchi con la roba che i fedeli portavano per i defunti.
«Per te e tuo figlio, Silvia» le sussurrò. «La signora Concetta, che abita vicino a te, ti porterà da mangiare quando partorirai. E può anche badare ai bambini. Dimmi, cos’altro possiamo fare?»
Silvia lo fissò, senza parole.

«Non stare zitta, Silvia. La gente evita il dolore altrui perché non sa come aiutare. Pensa, e poi torna a bere un tè con me.»
Capì allora che le persone buone erano più di quelle cattive. Doveva solo dir loro come fare. Dovette anche abbattere il suo orgoglio, chiedendo agli amici di badare al figlio per qualche ora. Con sua sorpresa, accettarono volentieri, portandole vestiti e cibo. Al posto dell’orgoglio, nel suo cuore entrò la gratitudine verso Dio.
Così aggiunse alla lista: Dio, suo figlio, la parrocchia, gli amici fedeli.

Ma il futuro la spaventava lo stesso, per quanto pregasse. La data del parto si avvicinava, e oltre agli aiuti non aveva né un lavoro né sicurezza.
Il giorno dopo arrivò un pacco enorme: vestiti nuovi per la bambina, un passeggino, lenzuola. Su Facebook c’era un messaggio di una certa Daniela:
«Cara Silvia, spero che queste cose ti saranno utili. Degli amici mi hanno parlato di te. Ma non è una tragedia, sono solo difficoltà temporanee. Lavoro per un’azienda di Milano e posso mandarti 500 euro al mese. Ti prego, prega per me e per mia madre defunta, la serva di Dio Lucia.»

Le mani di Silvia tremarono. Mentre finiva di leggere, le lacrime le bruciavano gli occhi.
Qualcuno suonò alla porta. Era l’amico Riccardo, venuto a portare il figlio a giocare. Avevano organizzato un turno tra di loro per aiutarla.
Quella volta, Riccardo spinse dentro un uomo imbarazzato.
«Silvia, nessuno lo capisce, è francese e parla male. Però è un genio. È qui per lavoro un mese. Tu hai ancora tre mesi prima del parto, no? Allora aiutaci con alcune traduzioni. Gli ho già detto che eri la migliore in lingue a scuola. Dunque, entra, fratello Antoine, e ringrazia che conoscerai la vita italiana da dentro, parlando francese con una donna bellissima. Anche se un po’ incinta.»

Quella sera, dopo aver discusso i dettagli con Antoine e Riccardo, Silvia versò il tè e accese sul telefono il video di Beatrice Rossetti, la ragazzina sulla sedia a rotelle che cantava facendo fermare i cuori.
«Ciò che è impossibile agli uomini è possibile a Dio. Vero, Antoine?» disse in un francese perfetto, senza sapere che per anni avrebbe avuto un lavoro redditizio come traduttrice.
Entrò in camera e cancellò tutta la lista, lasciando solo una parola: «Dio». Perché Lui si prende cura di tutti.
E se ti dà un figlio, ti darà anche di che mantenerlo.

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