Una telefonata inaspettata nel cuore della notte.

La sera tardi squillò il telefono. Lo sollevai dalla forcella e udii la voce della figlia.
– Mamma, sono Chiara. Ho un problema! Mi ha mollato Vittorio. Domani arrivo con papà e mi stabilirò da voi.
– Ascolta, Chiara… – risposi stanca, – ormai non abbiamo più un figlio né una casa.
– Cosa? – gridò squarciando il silenzio. – Cosa stai dicendo?
Come può non esserci casa? Sono pur sempre vostra figlia! Ho diritto a questa casa! – strepitò in preda alla crisi isterica.
– Ecco perché: – la interruppi fredda, – non hai alcun diritto su questa unità abitativa. L’abbiamo regalata a Elisabetta. Ora è lei la padrona di casa, e voi… non ci conoscete più. Non sei e non sei mai stata nostra figlia.
Non richiamarci mai più! Hai perso ogni legame – dichiarai con un tono definitivo. Da quel che aveva combinato Chiara, mi sentivo in pieno diritto morale di fare così.

Proprio mentre fissavo il vetro del balcone, mi tornò in mente che anche la nostra storia iniziò con un altro telefonino squillato a ore intempestive. Quello era il mattino prestato. Mi svegliai di soprassalto e mi precipitai al telefono fisso in soggiorno.
– Pronto?
All’estremità c’era un singhiozzo soffocato.
– Pronto, ti sento? Chi parla?
– Sono Antonia.
– Toni, non farmi morire di spavento. Guarda che ore segna l’orologio?
– Lo so, ma devo confessarti una cosa… Oggi mi addetto all’ospedale. Ho un intervento chirurgico e ho paura per Elisabetta. Ti supplico, tu e Nicola, non abbandonatela. Non lasciatela in un istituto.

La mia sorellina Antonia era da sempre una persona eccentrica, con la testa piena di idee stravaganti e azioni impensabili. Quella notte però la sua richiesta superò ogni limite.
Giravo inquieto il ricevitore, conscia che l’evento era grave, anche se non ancora interamente percepibile. Un brivido di terrore mi corse lungo la schiena.
– Toni, perché non mi hai detto prima? Che dolore hai? Dove ti trasferisci?
Anche stavolta Antonia da mesi lottava nel dolore, senza mai esagerare con i racconti. Aveva perso peso, aveva gli occhi spenti. La prognosi era disperata.
L’intervento chirurgico era urgente. Ma Antonia non aveva avuto il coraggio di informarci: noi stavamo sempre dietro a lei, con lo stipendio, con il conforto, come una madre. Ora, però, voleva scaricarci anche quegli oneri e quel carico umano.

– L’esito dell’operazione non è garantito. Supplicovi, non abbandonatela.
Un’ora più tardi eravamo già all’ospedale in via di Roma. L’intervento non era ancora iniziato, ma non potemmo salutare Antonia. Nella hall striminzita c’era Elisabetta: una bambina profondamente presa dal terrore. Presi a stringerla in un abbraccio.
– Aiuterebbero mamma? – mi chiese con gli occhi pieni di lacrime.
– No, tesoro mio. Dormirà piano… non sentirà dolore.
Quattro ore dopo, il medico uscì e ci comunicò la triste notizia. La sorellina Antonia non ce l’aveva fatta.

Domandammo a Elisabetta dove dormire e ci disse che si sistemava con Chiara. Mi accostai alle Camere da letto e dissi che la mammina di Elisabetta era morta e la bambina avrebbe occupato quell’ambiente. Chiara mi guardò con odio ma tacque.
Dieci giorni dopo, buttò fuori le sue cose dal letto, vietandole di avvicinarsi.
Era un periodo difficile. La ribellione di Chiara era violenta: ogni volta che accennavamo a sistemare Elisabetta, lei sgombrava di nuovo le sue roba.
Per evitare attriti, le diedi la nostra stanza da letto, e noi andammo a prendere stanza in salotto.

Elisabetta era figlia unica. Nei file di Antonia non trovammo mai nemmeno un solo dato sul padre. Ora la sua vita era in nostro carico. Da quel momento non feci mai differenza tra Chiara e la piccola. Erano entrambe mie figlie!
Passeggiarono gli anni. Chiara completò la sua laurea e sposò Vittorio, un uomo di buona famiglia e commerciante. Non le faceva alcuna differenza sposare un uomo anziano e ricco. In una notte, face le sue valigie e si trasferì a casa di Vittorio.
Nel mese seguente ci comunicò di voler celebrare il matrimonio.
– Mamma, vorrei solo dirti una cosa: la tua prediletta dannata non ce l’abbia mica a nozze. La vedo solo per puro errore.
– Chiara, non puoi comportarti così. Elisabetta è tua sorella, non puoi offenderci senza essere devota a lei.
– Lei non ci sarà mai alla mia cerimonia! – affermò perentoria.
– In quel caso, io e papà non arriveremo.
– Esatto! Abbiamo inteso.
Mi scontrai in lacrime, ma dopo mi riscossi. E dissi a Nicola:
– Andiamo in Campania, in uno di quei centri estivi.
– E la cerimonia di Chiara? – mi chiese Nicola.
– Nulla. Non sono state invitate.
– Aiutami, Elisabetta, a trovare un centro.
– Ci andiamo in vacanza? – chiese sorpresa la ragazza.
– Certo, si può permettere.
– Yay! – gridò felice girando per l’appartamento.

Rimasi in trappola con Nicola ed Elisabetta. La ragazza completò la maturità e iniziò l’università: si rivelò brava architetto, profondamente ispirata dalla madre pittora Antonia.
– Forse è sua madre – diceva Nicola, pensando a un celebre uomo, mai confermato, che conosceva la sorella. Io invece non ci facevo caso. Elisabetta era nostro figlio.

L’anno dopo festeggiammo i diciotto anni di Elisabetta, ma fu uno dei giorni più terribili. Nicola collassò, si ritirò in un’ombra fredda, perse i sensi. Chiamammo l’ambulanza e lo portammo al pronto soccorso.
Il medico ci spiegò la gravità del caso. Nicola aveva un problema e l’unica via era un farmaco speciale importato. Lo potemmo ordinare, ma il costo era una favola.

Chiamai Chiara, sapendo che suo marito era un uomo ricco.
Rispose lei. Le spiegai la situazione.
– Ciao, figlia mia – iniziai con dolcezza, – chiama Vittorio, chiedi se può prestarmi una somma per un farmaco straordinario e urgente.
C’era un lungo silenzio. Mi preoccupai. Finalmente, parlò:
– Va bene, parlerò con Vittorio e ti richiamo.
Aspettai, ma solo dopo un’ora rispose:
– Mamma, ecco… sapevi che Vittorio aveva pensato di regalarmi una vettura cara e forte. Me l’aveva promessa. Ora vuole che scelga tra lui e voi. Se gli do la spalle, non otterrà la macchina.
– Chiaramente scelgo voi. Pagherò il debito, ovvio – dissi con calma.
– Mamma, sei sciocca. Chi ti pagherà? Quattro rate al giorno? Com’è che vorresti rimborsarlo?
– Chiara, non ti capisco. Il tuo marito è anziano. Potrebbe morire. Devi renderci il denaro.
– Io non posso far niente. Prendete un prestito. Il mondo è abbastanza largo per tutti.
Gettai il ricevitore come un masso pesante. Piansi a dirotto.
– Cugina, che ti succede? – mi chiese Elisabetta, correndo a sorreggermi.
Sputai le mie lacrime.
– Cugina, vendiamo casa tua – mi disse con voce ferma. – Ne andrò via presto, non riesco più a vivervi. Non importa il prezzo: faremo un offerta.

Il giorno dopo avevamo già trovato un acquirente e ricevemmo le anticipazioni. In due giorni fu consegnato il farmaco, che salvò Nicola.
Dopo un mese, nostro figlio era ristabilito e felicemente in piedi. Decidemmo di intestare a Elisabetta l’immobile. Fu lei a sparire, soddisfatta e riconoscente.

Ora vive con Massimo, contadino nella valle Veronesi. Lui ha un grande casa e importa ambiti cereali. Vuole aprire una fabbrica di conserve.
Elisabetta ci invita spesso, ma decidiamo di limitarci a massimo una visita settimanale.
La stanza bellissima ma semplice in cui passiamo la notte, staremo felici, arredati e confortati. Nicola e Massimo sono diventati amici. Spesso vanno a pesca.

Chiara, invece, la ricordo solo il giorno del suo matrimonio: esattamente la stessa data che celebra il nostro viaggio estivo a Positano, quella volta in cui andammo in vacanza sola. Elisabetta spesso ci accompagna là.

Ogni volta in quel periodo mi chiedo: Come ho potuto allevare una cucciola egoista che ha posto i propri mezzi al di sopra di una vita umana? Eppure ella, un’orfana senza madre, conosce il valore supremo dei parenti dandoli più della sua stessa esistenza.

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