Tamara non poteva sopportare il suo consuocero.

Ricordo ancora il pesante silenzio di quei pomeriggi anni Quaranta a Napoli, quando mia madre, Caterina Sorrentino, non faceva mica che scuotere la testa davanti alla nostra porta. Suo genero Luca Rossi, coi gomiti appoggiati al tavolo del soggiorno e gli occhi fissi sullo schermo del suo computer, era l’ultimo venuto nella casa di famiglia. Rurale, col naso all’insù e con la testa piena di giochi persino in una Napoli dove l’acqua corrente era da poco entrata, Luca era uno che faceva mammone della spesa e non badava quasi mai al bimbo che cresceva. Mia madre, con un lungo certo che fa svenire, aveva provato a spingere via Luisa, ma lui, col naso all’insù, aveva messo incinta la cara figlia in un battibaleno e, da lì, non si era mossa.

Caterina, con le mani piene di decorazioni di carnevale appese al muro, non poteva certo permettersi il granché; i telefilm le avevano insegnato bene che, dopo un aborto, si rischiava di restare senza strascichi. Così, la casa grande sull’Appia Antica divenne un soggiorno condiviso, con Luca che, ancora oggi, ricordo mentre si alzava con una botta di sedia, come se fossi lui stesso la tecnologia.

«Luisa, ma quel tuo sposo deve sempre stare adokkato a quei calcoli?» sbuffava Caterina, stando in cucina a sbucciare i pomodori, come si deve. «Se fosse per lui, non si alzerebbe a cambiare i pannolini.»

«Mamma,» ribatteva Luisa con quel tono tenero che reggeva pure i colpi, «così si calma. Un’oretta a schermo e si presenta come un dannato con il pigiama.»

Non che Luca fosse poi un cattivo, pensavo anch’io. Caterina aveva da poco perso il marito, non sapeva nemmeno come ci si ingrassa una pentola, e lui, coi calzini bucato, che aveva sistemato l’acquaio e riparato i rubinetti come si deve. Ma non c’era niente da fare, preferiva vivere dentro chesti pesci rossi, meglio i guasti della cucina al pensare a ciò che il futuro le regalasse.

Peggio era che quel Rossi volesse portare via Luisa in una casetta lontana, magari per godersi la sua tre stanze. Caterina non ci stette: li mise dentro al salotto, pure con la stanza arredata, quindi faceva finta di niente.

«Mammina,» lui la chiamava, sempre con quel tono, «ma come sai preparare bene!» Sarà stato buono il consommé che gli metteva lui, ma Caterina sapeva che la cotoletta della figlia non era quel che appariva. Pure lui, coi panini secchi che gli sputava, non si vergognava di parlare col grugno pieno.

Un giorno, mentre lui si grattava come un pazzo un granaio di zanzare, lei gli domandò:

«Come mai non hai mai studiato, eh? Che solo i venditori di pollo sanno stare seduti a uno schermo?»

«Mammina, succede che ho studiato pure io,» si difese lui, «ma mi hanno espulso.»

«Perché? Ti sei diverto troppo a giocare?»

«Sì, ma dovevo guadagnare,» confessò lui, mangiando il pane duro che lei gli dava col mignolo, come fosse un passaggio obbligatorio.

«Ah sì,» sorrise Caterina, «e chi ti pagherà per quel lavoro, adesso?»

Lui non rispose, ma il dito medio di Caterina spuntò fuori in un modo che chiamava il pretore.

Peggio era che i genitori di Luca, che volevano visitare la «nuova famiglia», arrivavano con un atteggiamento che ricordo perfettamente. Come si dice, come si fa: urlavano, si spingevano e niente regalo per il piccolo Giulio.

«Sorellina,» disse la madre di Luca, guardando Caterina come un polentone, «a tuo genero devi far mangiare piano. Prima stavamo in un orfanotrofio e mangiava per tutti e sei.»

Luisa restò di sale. Caterina, col cucchiaio in mano, era un dito per addomesticare, come l’aveva visto fare a sua zia.

La sera stessa, chiamò Luca:

«Allora, hai studiato da quelle bracke per far diventare ricchi i loro figli?»

«Mammina,» ribatté lui, «è che dovevo stare lì finché non finì scuola mia sorella.»

«E quando ce ne sei andato, hai saputo?»

«No,» disse lui, «ma voi… voi preparate meglio di loro.»

Un’ora dopo, Luisa abbracciava Caterina, mentre Luca sorseggiava la pasta al pomodoro e diceva:

«La prossima volta, ti porto qualcosa.»

Ecco, così il gioco si è concluso. Caterina non gridò, ma mise in bacheca un diploma alla lista del carrello.

«Luca,» gli disse un giorno, sorridendo come quando faceva i fiori di zucca, «abbiamo bisogno di qualcuno che mostri agli altri come si insegna a giocare con i computer.»

Lui non replicò, annuì e disse:

«Faccio in tempo a fare anche il professore, grazie, mammina.»

E Luisa, con lo sguardo lucido che diceva tutto, abbracciò sua madre di nuovo.

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Tamara non poteva sopportare il suo consuocero.