La suocera non sopportava il genero.

Napoli, 15 ottobre
Nel corso degli anni ho imparato una cosa: non si giudica mai una persona finché non si conosce tutta la storia. Ma torniamo a Simone, questo ragazzone di Benevento che ha sposato mia figlia Giulia. Lui era uno di campagna, tanto rustico da non sapere neppure come si usava un coltello e una forchetta. Faceva il camionista, ma appena tornava a casa si piantava davanti al computer a giocare alle tartarughe. Giulia ne era pazza, io sì che non lo vedevo per niente come un bel partito. Eppure, che ne sapevo? Lui ha fatto la cosa più scontata per stare con lei: l’ha messa incinta.
Io non avevo voce in capitolo. Ero abituata a guardare i film rosa alla tv, ma anche li spesso finiva che la suocera malsiccia diventava buona. Così, invece di cercare di far abortire Giulia, ho mormorato qualcosa tipo “meglio sposati che scapoli” e l’ho buttata giù con una cerimonia velocissima. Poi lui ha avuto l’ardire di dire a Giulia: “Mettiamoci in affitto”. Sì, pure questa! L’ho sistemata io qui, a casa mia, nella stanza più grande, con un camerino per Giulietta, la nostra piccola.

– Giulia, perché lui non smette mai con quei giochi per computer? – sbottai una sera, mentre stavo stirando. – Tu te ne devi riposare, lo sai che hai il pancione.
– Mamma, Alessandro si sforza così, tu non capisci – sorrise lei. – Gli passa la tensione, dopo si sveglia Giulietta e va a metterla a letto. Lascialo stare.
Ma Alessandro Simone non era il peggior figlio generato da dio. Io sono vedova da dieci anni e ho imparato a cambiare una lampadina solo l’anno scorso. Lui invece ha sistemato i gabinetto in bagno, ha aggiustato l’anta a quel mobile che non si apriva da anni. Chi se lo sarebbe aspettato da uno che si dicevano mangiasse solo funghi? No, non che mi piacesse: ma era mica peggio degli altri, forse.

L’unica cosa che non mi andava giù era che lui sognavo di essere uno che camminava leggero. Giulia era nata ballerina, ma adesso, con l’addome e la maternità, faceva insegnanti di danza al centro comunitario. Sembrava che lui avesse stravolto tutto. Eppure, quando lo guardavo con Giulietta, non sapevo se odiarlo o compatirlo. Però lui non si accorgeva affatto del mio sguardo. Mi chiamava mamma, tanto per fare…

– Mamma, voi siete bravissima a cucinare! – diceva con un sorriso gli occhi a cuore. Io quasi ricamavo suo. La sua polpetta era di carne, la mia, bevveva carne in quel messo che una volta era un fagiano. Un giorno gli dissi, seria seria:
– Alcuni restano ai computer non per divertimento, ma per guadagnare. Hai visto il figlio di Maria? Lavora in informatica!
– Io pure – rise lui. – All’università ci sono andato, ma non sono arrivato.
– Prog. – annuii. – Hai smesso perché giocavi.
– Mamma, lui cercava di alimentare me, Alessia – intervenne Giulia. – Gli ho detto mille volte che potrebbe fare un corso serale. Ma lui non si sente di farlo.
– Già, perché studiare richiede testa, non solo braccia – commentai. Giulia alzò gli occhi al cielo e io andai a letto.

Ma peggio di lui erano i suoi genitori. Li avevo visti una voltina alla cerimonia, e basta. Un disastro. Così, quando lui disse timidamente:
– Mamma, i miei tornano a visitarci. Solo per cena.
Io quasi svenni. “No, no, no!” pensai. Giulia, però, si entusiasmò.
– Oh, ottimo! Farò un dolce, e forse anche il rotolo per il pollo!
Cioè, che le mie lasagne non erano abbastanza?

Avevo paura che i suoi non avrebbero portato neanche un regalo. All’arrivo, Giuseppe e Maria si presentarono con un cappotto e una busta piena di cavoli. E non smettevano mai di parlare: fingevano che il nostro vicino di casa non avesse una casa grandissima, e per giunta neanche pagava l’affitto.

La sera di conseguenza fu un disastro. Mentre mangiavamo, Maria sbottò:
– Suocera, lei gli metta una sola forchettina! Lui mangia come un porco. L’abbiamo trovato piccolo piccolo, salvo che non mangiava. Non si vergogna nemmeno di mangiare con le mani. Le sue sorelle, quelle si, ci dividevano il cucchiaio!
Io quasi sputai. Cosa? Cioè Simone era stato adottato? Giulia ne aveva mai parlato? La guardai, inorridita. Lei non sapeva nemmeno che i suoi genitori fossero vivi.

– Non ti aveva mai detto? – le chiesi.
– No – disse lei. – Ma che razza di voltastomaco…
Io non dissi niente. Aspettai che Giulia andasse a mettere Giulietta a letto e lo chiamai.
– Allora, Simone, tu sei cresciuto in una famiglia che ti dava solo per mangiare? – gli chiesi.
– Mamma, non siano male – rispose. – Eravamo poveri. Anche per far crescere le mie sorelle, io dovevo stare attento a mangiare. Ma almeno, erano puliti… E comunque voi siete molto più buone, voi preparate il cibo in un altro modo.
– E chi ti ha mandato in giro coi suoi sogni? – sbottai.
– Voglio studiare! – asserì. – Ma prima, ho dovuto prendere Giulia e Giulietta.
– Bene – conclusi secca. – Hai un lavoro da sbrigare da noi. Posso darti il posto come tecnico informatico. Sai installare un computer?
– Sì, sì, lo so! – quasi gridò. – Ma non pensavo di farmi assumere da voi!
– Allora dài – conclusi – e smettila di giocare a quelle tartarughe e torna a studiare.
Lui annuì. Giulia mi abbracciò.
– Mamma, sei una santa!
– Ehi, siamo qua per cose più serie – risposi. – Ma mangio anche meglio che un delizioso castagnaccio.
Io non dicevo niente, ma dentro mi rallegravo. Simone non era per niente cattivo, sai? Era solamente confuso. Ecco: “Addio tristezza”.

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