4 marzo
C’erano giorni in cui Roma sembrava avvolta in un latte tiepido di primavera. Il sole filtrava attraverso le persiane di legno, danzando su quelle pareti appena rinfrescate che avevo imbiancato stamattina. Luca era in cucina, perso in un libro di legge, mentre io mescolavo un pentolone di cacio e pepe con mani tremanti. Non era per il cibo—sapeva che aveva promesso a suo padre di preparare il suo piatto preferito prima che lui tornasse a casa. Avevo l’ansia: da quando quel vecchio signore era arrivato due giorni fa, ogni cellula del mio corpo si contorceva tra paura e speranza.
«Lucaà, hai visto il mio cinturone nero?» La voce di mio marito tremava mentre si abbottonava la camicia in fretta. Era il giornaliero momento post-lavastoviglie in cui ci aspettavamo l’inevitabile scena da commedia familiare. «L’ho appeso all’appendiabiti, lì vicino al cavo del caffè,» lo rassicurai. «Non spaventarti, l’ho pulito ieri.»
Alla fine, mentre lui parlava di chissà quali leggi sui mutui e io sorseggiavo un espresso fortissimo, non feci domande. In fondo, si sa, i figli sposati sono esperti navigatori della diplomazia familiare. Finì che mi appiccicò una frase inaspettata: «In realtà, papà dovrebbe arrivare stasera.»
Il cucchiaio mi sfuggì quasi dalle dita. Giacomo è sempre stato un soffietto acerbo con quel lato militare da ex carabiniere. La volta dell’ultimo Natale era riuscito a dividere la famiglia a causa di un pescatore di ricotta maleddettamente leggero. Ma stavolta sembrava diverso. «Ha bisogno di noi per un po’, si sta sistemando con…» non mi disse altro.
«Due settimane?» rantolai, con occhi come bistecche di carne maturata. Dopo un abbraccio che odorava d’ansia, con lui che mi sussurrava che forse era cambiato per davvero, spazzai casa, sistemai un letto in più in camera soprattutto con una guida illustrata per comprare un regalo da lui che non era il cappotto rosso di mia madre.
Dopo il tramonto, il campanello squillò. Luca era già corrucciato, mentre Giacomo, con quell’iconico cappotto grigio pesante e un berlingotto nero che sembrava arrugginito, invase la stanza. «Ciao, sono Federica.» Pronunciai con voce che suonava come un brontolio di cane. «Benvenuto, ma se dobbiamo stare insieme per venti« giorni», dobbiamo trovare un accordo.»
Durante la cena, lui sembrava tranquillo, osservava con occhi sarcastici il nostro cacio e pepe, rifiutò di alzare braccio per le briciole di pane. Ma la volta dopo, lo sorpresi a sistemare le tovaglie di spugna per il caffè in cucina. «Ah, allora la tavola saprebbe di casa.»
«Non hai mai pensato a tuo padre?» domandai una notte, mentre lui stava leggendo. «Era un tipo come la mela marcia, non ti faceva capire che era in crisi col nuovo marito di sua moglie? Ma forse… lo sai, è vecchio… si sparisce.»
L’indomani, dopo aver riscontrato una discussione tra lui e suo padre in salotto, capii che era venuto fuori qualcosa. «Oddio, che strano.» sussurrai al telefono con Gianna. «Hai presente quando lui, il padre, ti ha insultato con quel discorso sugli eredi e la pizza con verdure? Beh, stamattina ha detto che l’ha vista in maniera diversa da un paio d’anni. A proposito, quando aveva avuto un infarto.»
«Cioè, ti pensi di stare insieme a lui per motivi diversi?» rispose Gianni con voce stranamente fiduciosa. «Beh, le persone talvolta si svegliano.»
In fondo, a vederla, non è che lui abbia cambiato anima. Ha sempre quel sguardo militare, ma adesso lo usa per aiutare in casa, andare a correre al parco e a volta a volta mi chiede: «Dove trovo il Cane Corso?» Enzo è il nostro cucciolo, un mostro bellissimo che ha adorato da subito. Mi chiedo se è davvero tutto cambiato o se sta solo sperando di riottenere il controllo per il prossimo invito a cena.
Però… a un certo punto, mentre lui faceva una quantità incredibile di spaghettoni con pomodoro, mi disse: «Non so perché, ma non mi importa più« delle mie ricchezze». Mi hai insegnato qualcosa.»
«E cosa?» gli domandai, anche se non fu facile fingere che non sorridevo. «Che la vita reale è fatta di cene con le briciole sul tavolo e cani che abbaiano come pazzi.»
Cinque giorni dopo, mentre Luca era a lavoro, ci fu uno squillo. Avere mia suocera dietro quella porta fu un shock. «Ciao, anch’io avevo bisogno di parlare con mio padre.» disse secca, con occhi per nulla amichevoli. Lui rimase calmo, le diede un regalo, e lei andò via. Il suo volto non sembrò sorpreso. «Sei sempre stata una brava donna.» mi disse, brindando con un bicchiere di vino.
Mentre la pioggia lavava via le macchie di Roma, mi chiesi se davvero lui fosse cambiato. O forse, era un uomo che aveva imparato che l’amore non è fatto di soldi o controllo, ma di una cena fatta con un po’ di cacao e pepe.