In un paesino avvolto nell’ombra del nord Italia, dove i fiordi d’inverno si coprono di brina e d’estate l’aria pullula di zanzare, c’era un caseggiato di cemento triste. Le case sembravano cubi smontati, come se qualcuno avesse rotto la pasta di zucchero in mezzo alla campagna. Gli anni sessanta scorrevano lenti, e l’industria meccanica locale avanzava a passo di formica, tanto che il tempo si era solidificato come miele in una bottiglia vecchia. La vita girava intorno al mulino della pasta Casali, dove tutti, grandi e piccini, si affaticavano, vivendo di bonus regionali e di salari appena sufficienti.
Nel cuore dell’anonima struttura abitava la famiglia Benedetti, una famiglia come tante, con il padre Mario, una creatura alta e magra, con un’aria di perenne sospetto negli occhi. Sembrava un sosia di un antico eroe contadino uscito da una novella, ma senza il suo mantello e con un grembiule da operaio. Al lavoro, Mario era il maestro indiscusso: le sue mani sapevano modellare la pasta come un pittore crea un capolavoro. Ma a casa… la parola “basta” sembrava seguire ogni sua azione, dura come il ferro della sua valigetta per bottiglie. Sin dalla nascita, l’uomo viveva nella convinzione che ogni lira costasse un pezzo di vita.
Sua moglie Chiara era l’opposto: una donna che aveva smesso di cantare le canzoni di stanza di una volta, i versi brillanti dietro le finestre aperte. Il tempo l’aveva scavata, e ora portava i capelli raccolti con un’assenza di grazia, come se temesse di perderne una ciocca per un alito. La sua routine quotidiana consisteva nel contare i contanti del mercato come un prete contasse le preghiere. Gli occhi spenti riflettevano lo stesso sforzo economico del padre.
Il loro figlio Luca, dodicenne ribelle, cresceva in un’atmosfera di austerità. La voce del padre era un tamburo: “Un soldo non si butta mai!” Luca imparava a memoria le uscite, a evitare le occasioni di spesa, a guardare con sospetto persino un gelato gratis in piazza. L’unica sua distrazione erano libri presi in biblioteca con un’accuratezza maniacale. Un giorno, quasi come in un lampo improvviso, aveva portato a casa un cucciolo di gatto nero, ma il padre l’aveva scacciato come se fosse una presenza sovrannaturale.
Le mattine si svolgevano con ritualità: Mario svuotava l’armadietto blindato nel corridoio, misurando esattamente i quantitativi di farina, cannellini e uova come un chimico in laboratorio. Chiara, con voce soffocata, acconsentiva. Luca, nascosto nell’ombra, contava i secondi trascorsi da quando il padre aveva gridato “Meno che il necessario, altrimenti piove!” senza capire il senso delle sue parole.
Un giorno di pomeriggio, Maria, una vicina di casa, aveva sussurrato a Chiara: “Magari ogni tanto potreste sorridere, anche se costa.” Ma Mario aveva smesso di parlare con lei per settimane, considerandola un spreco di energia emotiva.
La casa diventò un santuario chiuso nel tempo, ma non per amore, bensì per un’ossessione estrema. Il padre accumulava bottiglie vuote, rotoli di carta da regalo, tutto per un obiettivo ignoto. Il figlio Luca, durante l’adolescenza, cominciò a indossare abiti imbottiti per nascondere l’immagine devastata dal digiuno emotivo. Faceva sempre meno uso della voce, come se parlarci facesse consumare energia. La sua unica compagna invisibile era la ragazza del cinema, che fissava mentre rifiutava l’invito a cena con un colpo di manata “Hai già abbastanza soldi!”
Un pomeriggio, un incidente improvviso rompe la routine: una vecchia candela si spegne all’improvviso, e Luca vede il padre perdere l’equilibrio, cadendo in un vaso di basilico. In quel momento, il cuore di Chiara sembra un calice che si spezza. Inizia a parlare piano, sussurrando alla donna寐着的母亲: “Forse non dobbiamo fare così? Luca meriterebbe qualcosa in più…” Ma Mario, come una statua improvvisa, si alza rigidamente, gli occhi ridotti a due fessure. La tensione cresce come una corda al limite, e con un unico gesto, sposta la moglie con un braccio meccanico.
Gli anni avanzano come un nastro di carta, e Luca, ormai adulto, si sposa con una ragazza speciale, Sofia, che ride mentre lui annuisce nella biblioteca pubblica. Durante la loro prima settimana a vivere insieme, Luca continua a contare le gocce d’acqua sul grido mentale “Una si rompe, tante seguono!” ma Sofia, con la sua voce settentrionale e gentile, inizia a scioglierlo come nebbia in un mattino freddo. Lottano per creare una realtà diversa, ma ogni volta che Luca sente la spesa quotidiana in più, l’immagine del padre si fa ciclica, e le sue parole ritornano come un incantesimo. Un’ultima scena: Sofia, le lacrime veloci come foglie in autunno, dice “Non posso più vivere in un modo che non mi permette di sogno.”
E allora Luca rimane solo, circondato da scatole di pasta non aperte, in una stanza che sembra un parcheggio per sogni mai vissuti. Ma la finestra, improvvisamente, si apre come un portale, e una luce diversa sale dal Po, come se perfino la natura volesse inchiodare il trauma al presente.