— Me ne vado, Matteo. E non provare a fermarmi — Lisa stringeva tra le dita un vecchio pennello con l’impugnatura consumata, come fosse un talismano. Dietro di lei, sul cavalletto, un dipinto incompiuto si asciugava: un tramonto scarlatto strappato da pennellate oscure.
— Te ne vai? E dove? Dai tuoi colori e pennelli? — Matteo rise, ma nella sua voce risuonava rabbia. — Senza di me sei nessuno, Lisa. Nessuno. Chi accetterebbe i tuoi scarabocchi?
Lo guardò, quell’uomo che un tempo le aveva promesso le stelle e ora le rubava persino la luce. Il suo volto, un tempo così familiare, le appariva distorto dal disprezzo. Lisa respirò profondamente, sentendo la determinazione scorrere nelle vene, e uscì sbattendo la porta. Il vento le sollevò i capelli, mentre nel petto ardeva qualcosa di nuovo: la libertà.
***
La mattina nella loro piccola cittadina profumava di rugiada, erba tagliata fresca e il fumo dei camini dei vicini. Lisa si svegliò al canto degli storni e gettò uno sguardo al cavalletto nell’angolo della camera. La tela vuota la fissava con un muto rimprovero, come un vecchio amico tradito. Quel giorno Matteo aveva promesso di portarla a una mostra nel capoluogo, e lei sorrise, ricordando le sue parole di due anni prima.
— Sei un talento, Lisina — le aveva detto, abbracciandola nel loro piccolo affitto. La luce della lampada illuminava i suoi schizzi sparsi sul tavolo. — Ti aiuterò a mostrarti al mondo. Brillerai.
Ci aveva creduto. Fino a quando le sue promesse non erano diventate rimproveri: “Basta perdere tempo con questi scarabocchi”, “Pensa alla famiglia”, “A chi interessano i tuoi quadri?”. Ogni parola lasciava un segno, come una macchia su una tela bianca, e Lisa aveva iniziato a nascondere i pennelli.
— Buongiorno, dormigliona — entrò Matteo, già vestito con la camicia stirata, profumato di colonia costosa. — La colazione è pronta, sbrigati. Mamma ci aspetta per pranzo.
— E la mostra? — Lisa si sedette sul letto, sistemando i capelli biondi ancora sciolti.
— Che mostra? — aggrottò le sopracciglia, allacciandosi la cravatta. — Lisa, abbiamo da fare. Mamma vuole parlare della ristrutturazione, e io devo passare in ufficio. Forse un’altra volta?
— Ma avevi promesso… — la sua voce tremò, ma tacque vedendo la sua espressione irritata.
— Lisa, non ricominciare. Ne ho abbastanza dei tuoi capricci — sbottò, uscendo e lasciando una scia di colonia.
Lei annuì a se stessa, ingoiando la delusione. Era sempre così: “un’altra volta”, “dopo”, “non adesso”. I suoi sogni svanivano nei suoi piani, come un acquerello sotto la pioggia. Lisa si alzò, indossò un vecchio maglione e andò in cucina, dove il caffè e i toast preparati da Matteo erano già freddi. Anche la sua premura sembrava meccanica, un dovere senza cuore.
***
Lisa era cresciuta in una casa dove l’arte era considerata una perdita di tempo. La loro vecchia casa ai margini del paese scricchiolava e odorava di umido. La madre, stanca dai turni nella fabbrica tessile, ripeteva: “Con i disegni non si mangia”. Il padre, sempre in garage tra macchine arrugginite, scrollava le spalle quando Lisa gli mostrava i suoi schizzi.
— Lisa, di nuovo con i tuoi scarabocchi? — la madre sbucò nella soffitta, dove la bambina di dieci anni disegnava su un album, strofinandosi le mani sul grembiule. — Meglio se sbucci le patate.
— Non sono scarabocchi, mamma — rispose piano, nascondendo il disegno di un tramonto visto dalla finestra. — Sono io.
La madre sospirò e se ne andò, borbottando di “fantasie”. L’unica che vedeva del talento in Lisa era la sua maestra d’arte, la signora Bianca. Una signora anziana con capelli argentati e sciarpe colorate che aggiustava la matita di Lisa con delicatezza, come se tenesse un uccellino.
— Hai un dono, Lisa — le diceva, osservando i suoi schizzi. — Non permettere a nessuno di spegnerlo. Prometti?
— Prometto — sussurrava Lisa, con il cuore che batteva forte.
Ma dopo la scuola, i sogni dell’accademia d’arte si infransero contro la realtà. La madre insistette per un “lavoro serio”, e Lisa si iscrisse a un istituto tecnico per ragionieri. Lì incontrò Matteo, il figlio affascinante di un imprenditore locale, il cui sorriso scioglieva il ghiaccio. Sembrava la salvezza dalla grigia routine.
— Sarai la mia musa — sussurrò al primo appuntamento, baciandole la mano vicino alla vecchia fontana del parco. — Ti renderò felice.
Lisa ci credette. Si sposarono un anno dopo, si trasferirono a casa dei suoi genitori, e iniziò una nuova vita. Ma con il tempo Matteo le ricordò sempre più spesso che il suo posto era in cucina, non nello studio. I suoi colori impolverarono in una scatola, e il cavalletto divenne solo un mobile.
***
— Lisa, dove sei? — la voce di Matteo la strappò dai ricordi. Era in cucina, mescolando un sugo, mentre le immagini dei quadri incompiuti le danzavano in mente. L’odore di cipolla e carota si mescolava alla sua stanchezza.
— Sono qui — si costrinse a sorridere, asciugandosi le mani. — Il pranzo è quasi pronto.
— Bene, passo in ufficio un’ora e torno — gettò un’occhiata ai fornelli. — E, Lisa… Mamma chiede ancora quando avremo un figlio. È ora, no?
Lisa annuì, ma un groppo le serrò la gola. Un figlio? Lo avrebbe amato, ma ogni volta che Matteo ne parlava, sentiva i suoi sogni allontanarsi. Come se qualcuno la rinchiudesse in una gabbia e gettasse via la chiave nel fiume fuori dal paese.
— Matteo, e se ricominciassi a dipingere? — osò, guardandolo alle spalle. — Potrei iscrivermi a un corso o…
— Dipingere? — si voltò, le labbra storte in una smorfia. — Lisa, sei seria? Sono giochi da bambini. Pensa piuttosto alla cena. Mamma viene oggi, vuole il minestrone.
Tacque, sentendo qualcosa contrarsi dentro. Quella sera, dopo la partenza della suocera, Lisa decise di riordinare la stanza. Aprì l’armadio di Matteo e trovò il telefono dimenticato. Lo sbloccò, senza sapere perché, e i messaggi di una certa “Ginevra” le bruciarono gli occhi: “Quando lasci la tua topolina grigia?”, “Mi manchi, vieni”. C’erano anche foto: una ragazza dai capelli scuri, in un vestito attillato, che sorrideva come se il mondo le appartenesse.
— Lisa, sono a casa! — la voce di Matteo risuonò dall’ingresso.
Rimise il telefono al posto, asciugò le lacrime e andò da lui con un sorriso forzato. Ma dentro di sé era crollata. La cena trascorse in silenzio, con solo il rumore delle posate e Matteo che parlava di lavoro, ignorando il suo sguardo assente.
***
Il giorno dopo Lisa incontrò l’amica Laura al bar “Al Fiume”. Laura, una compagna di scuola dal riso contagioso, ora barista, sapeva sempre come tirarle su il morale. Sedute al tavoloLisa prese il suo ultimo respiro in quella vecchia casa, chiuse la porta per sempre e camminò verso il tramonto, con il cuore leggero e i colori finalmente liberi di brillare.