Non meriti le mie lacrime

— Non te lo meriti, le mie lacrime.

Ricordalo, Marina: senza di me, non saresti neanche diventata una persona — disse la madre, fissando i capelli con una forcina d’ambra. — Ti ho cresciuta tra le mie braccia, ti ho trovato un marito decente, ti aiuto con la bambina… e tu?

Marina lavava i piatti in silenzio. Le mani si muovevano automaticamente, ma dentro di lei tutto si stringeva in un nodo. Sapeva che stava per arrivare la solita predica: tutto ciò che faceva era sbagliato.

— E del tuo lavoro non ne parliamo. Chi diventa contabile dopo la laurea in lettere? Vergogna. Avresti potuto insegnare, come Ornella, la figlia della mia amica. Invece…

Marina non rispose. Aveva imparato a tacere. Il silenzio era il suo unico scudo. Se provava a ribattere, scoppiava la tempesta. La madre sapeva colpire con le parole.

La famiglia viveva in un vecchio trilocale alla periferia della città: Marina, suo marito Luca, la figlia di sei anni, Sofia, e la madre, Giuseppina. Dopo la morte del padre, Marina aveva insistito perché la madre si trasferisse da loro. All’inizio sembrava una buona idea: la nonna vicina, pronta ad aiutare con Sofia, Marina libera di lavorare.

Ma presto Giuseppina aveva occupato ogni spazio. Comandava in casa, commentava ogni gesto, e secondo lei persino il tè di Marina era preparato «nel modo sbagliato».

Luca sopportava. A volte scherzava, a volte spariva per ore in garage. Era un uomo semplice, buono, un po’ stanco. Niente di pretenzioso, solo calore. Marina lo amava, ma quel calore si allontanava ogni anno, come se qualcosa di freddo si frapponesse tra loro. E quel «qualcosa» sedeva in cucina, in vestaglia di fiori, a spiegare come dovevano andare le cose.

Tutto cambiò con la chiamata del medico. La salute di Giuseppina peggiorava: mal di testa, nausea, confusione. La diagnosi confermò il peggio: un glioblastoma inoperabile. I medici parlavano di pochi mesi, forse un anno.

Marina non pianse. Si bloccò. Poi si mise in moto, come un automa. Analisi, cliniche, consulenze. Spostò riunioni, chiese al capo di lavorare da casa. Lui accettò. Anche Luca. Persino Sofia sembrava capire che la mamma ora faceva tutto da sola.

Giuseppina, invece, non sembrava cambiata. Criticava l’infermiera, rispondeva male al dottore, trovava sempre qualcosa da ridire sulla minestra. Solo di notte, quando credeva di non essere sentita, sospirava nel cuscino.

Un giorno, Marina cercava una coperta nella credenza. Tra scatole e pacchi, trovò una scatola da scarpe. Dentro, lettere. Molte indirizzate a lei, ma scritte da altre mani.

La prima cominciava così:
«Marina, ti aspetto. Ti richiamerò, non posso credere che tu sia sparita così. La tua Chiara.»

Chiara. La sua amica del liceo. Quella con cui sognava di aprire una libreria, di viaggiare in Spagna, di scrivere. Non avevano litigato: semplicemente smisero di parlarsi. E Marina era sicura che fosse stata Chiara a sparire.

Altre lettere erano di Chiara, una da un datore di lavoro: le offriva uno stage a Milano. Marina ricordava quella busta: le era arrivata anni prima, ma… vuota. Allora pensò a un errore.

C’era anche una lettera di Luca. Scritta prima del matrimonio. Parlava di trasferirsi a Venezia, aprire un’attività, vivere vicino al mare. Marina non l’aveva mai ricevuta. Aveva pensato che Luca avesse cambiato idea.

Si sedette per terra, le lettere tra le mani. Il mondo si inclinò.

Non erano errori. Era sabotaggio.

La madre intercettava la posta. Nascondeva, manipolava, forse inventava risposte. Le riaffioravano frasi:
«Quella Chiara è una vuota, ti mollerà appena può»
«Luca? Ti porterà alla rovina! Dove andrete senza di me?»
«Uno stage a Milano? Truffa. Vuoi lavare i piatti là?»

E lei aveva creduto.

Marina passò la sera con quelle lettere. Poi andò in cucina, si sedette di fronte alla madre. Era ora di affrontare la verità.
— Ho trovato le lettere. Di Chiara. Di Luca. Quella di Milano.

Giuseppina non trasalì. Sbuffò:
— E allora?

— Le hai nascoste?

— Certo. Non eri capace di capire. Chiara è una falsa, Luca è un fallito, e a Milano ti avrebbero ingannata. Ti stavo proteggendo!

— Non protezione. Controllo — disse Marina piano. — Mi hai rubato le scelte.

— Sono tua madre! So io cos’è meglio!

— Volevi che restassi con te. Sempre. Dipendente. Non hai nascosto solo le lettere. Hai detto a papà che non gli servivo. Hai distrutto i nostri rapporti. E la mia vita.

— Sciocchezze! Senza di me saresti perduta!

— E non pensi che con te l’ero già? Ho perso tutto quello che potevo costruire.

Giuseppina tacque. Nei suoi occhi passò qualcosa simile alla paura, o al vuoto. Poi sussurrò:
— Avevo paura di restare sola.

Una settimana dopo, Marina preparò le valigie. Affittò un appartamento in un altro quartiere. Luca aiutò con i mobili, Sofia iniziò un nuovo asilo. Quando Marina scoppiò a piangere su una scatola di libri, lui la strinse.

— Ricostruiremo tutto, capisci? Ma alle nostre condizioni.

Giuseppina morì quattro mesi dopo. Marina continuò a visitarla, portava cibo, controllava l’infermiera. Ma dentro era diversa. Non più una bambina in cerca di approvazione. Una donna che finalmente si permetteva di vivere.

Ai funerali c’erano poche persone. Alcune vecchie vicine, l’infermiera che Giuseppina insultava. Nessuno disse «era buona». Solo: «Una donna di carattere».

Marina non pianse. Teneva Sofia per mano, guardava il cielo grigio. Era silenzioso. Il silenzio, il primo vero regalo che la madre le aveva fatto.

Un anno dopo, Marina ricevette una lettera. Di Chiara. C’era un numero e un messaggio:
«Ti ho sempre aspettata. Se vuoi, sono qui.»

Marina guardò a lungo lo schermo. Poi compose il numero.
— Chiara?
— Marina? Non ci credo! Sei tu davvero?
— Sono io. Tornata. A me stessa.

Quella sera, Marina era in terrazza. Luca giocava con Sofia. Ascoltava le loro risate, beveva tè verde, osservava un piccione sul tetto vicino. Apri le ali, come a ricordarle: puoi volare, anche se ti hanno tenuta in gabbia.

Il telefono squillò.
— Allora? — la voce di Chiara era sicura, come un tempo.
— Non credo sia davvero tu.
— Credici. Sono io. Quella vera. Tornata.

Parlarono per ore. RiseMarina sorrise, sentendo per la prima volta il vento leggero accarezzarle i capelli, libera, mentre il piccione spiccava il volo verso l’orizzonte dorato.

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