**La Casa ai Confini della Palude**
Aurora stava nel cortile invaso da erbacce, la vita stretta tra cardi e ortiche, fissando la casetta storta con l’insegna sbiadita: “Località Muschiara, Via Prato, 1”. L’odore era di palude, legno bagnato e… ricordi.
Da bambina, passava qui ogni estate con nonna Agostina, una vecchia severa dai capelli d’argento e la voce tonante. Preparava crostate di mirtilli, tisane di erbe, leggeva i sogni e guariva i porri con un soffio. «Qui vivono gli spiriti del bosco», diceva. «Ma se vieni col cuore puro, non ti toccano». Aurora ci credeva.
Ora aveva trentun anni. Ed era tornata. Dopo dieci anni con Riccardo, che l’aveva lasciata per un’istruttrice di pilates, e un lavoro in ufficio che l’aveva svuotata come un limone, aveva capito: se non cambiava tutto subito, sarebbe stato tardi. E così aveva svoltato. Dritta verso una strada sterrata.
La casa era sua, ereditata dalla nonna. La madre voleva venderla per due soldi a un cacciatore del posto, ma Aurora aveva rifiutato. «Me ne occupo io». «Sempre la solita pazza», aveva sbuffato la madre.
Il primo giorno, Aurora spazzò i pavimenti. Dal legno scivolò via una melma nerastra, come se decenni di stanchezza finissero nel secchio. Poi pulì il camino, spolverò le icone, scacciò i topi. La notte si addormentò avvolta nella coperta di lana di nonna Agostina. Sognò la casa, calda e viva. Come se la nonna l’avesse abbracciata sussurrandole: «Non aver paura. Qui sono le tue radici».
Alla terza settimana, arrivò la «delegazione»: la madre, zia Edvige e il cugino Sandro.
«Abbiamo pensato», cominciò la madre, scrutando il portico con disgusto, «che visto che la nonna era di tutti, la casa va divisa».
«Già», annuì Sandro, grattandosi la punta dello stivale. «Qui si potrebbe fare un bel rifugio per cacciatori. Ho già chiesto i prezzi».
Aurora si asciugò le mani sul grembiule e uscì sulla porta.
«Benvenuti. Ma niente rifugi. La nonna ha intestato la casa a me. Testamento dal notaio».
«Aurora, non fare la testarda!», strillò zia Edvige. «Tu sei sola, Sandro ha una famiglia! A lui serve di più!»
«Sandro, se non sbaglio, ha tre mutui e gli alimenti. Problemi suoi. La casa è mia. Punto».
«Ma guardala!», sbottò la madre. «Vive come una strega della palude e alza la voce con la famiglia!»
«Alzare la voce l’avete fatto voi, quando mi picchiavate per un dolce rubato», rispose Aurora, gelida. «Ora, se non vi dispiace, andatevene».
I parenti se ne andarono sbattendo i piedi. Sandro, per dispetto, sfiorò il cancelletto col paraurti.
Quella notte, mentre Aurora si preparava a dormire, il pavimento scricchiolò. Poi di nuovo. Come se qualcuno camminasse sotto.
Scese con la torcia. Nella dispensa, una fessura tra le assi era troppo larga, e la luce rivelò qualcosa che luccicava. Aurora sollevò la tavola. Sotto, una scatola. Avvolta nella tela cerata.
Dentro, un mazzo di lettere. Della nonna. Alcune indirizzate a lei.
«Se leggi questo, hai scelto di restare. Lo sapevo che saresti tornata. Qui è la tua forza. Ricorda: in questa casa ci sono le tue radici, il tuo sangue, la tua verità. Basta non avere paura. Né degli uomini, né della palude. Gli uomini sono peggiori».
Le lettere erano un diario. La nonna parlava dei suoi sogni, degli spiriti che la visitavano, dei parenti che sopportava ma non amava. E di una donna, Livia, con cui aveva vissuto negli anni Quaranta. «Ci chiamavamo sorelle. Allora non si poteva fare altrimenti». Aurora lesse finché il cuore non le si strinse. La nonna era stata…?
Una settimana dopo, arrivò una squadra di restauratori: una donna coi capelli blu, un uomo corpulento in pantaloncini e due ragazzi.
«Ciao, sono Chiara», disse quella coi capelli blu. «Restauro antico. Hai scritto nel gruppo che volevi rifare la facciata con le tecniche tradizionali? Siamo specializzati».
Aurora annuì. Quella gente le piacque subito. Montarono le tende dietro casa, ridevano, cantavano al fuoco. Una sera, Aurora lesse ad alta voce le lettere della nonna. Gli ospiti ascoltarono senza fiato.
«Sai», disse l’uomo corpulento, «è come se ti avesse passato la voce. Leggi, e sembra di sentirla. Come se fosse qui».
«E lo è», disse Chiara. «Siamo a Muschiara. Qui i confini sono più sottili che in città».
Il giorno dopo arrivò Sandro. Da solo. Con una bottiglia.
«Devo parlarti», disse sulla soglia. «Posso?»
Aurora accennò un cenno. Lui si sedette accanto al camino, guardò in giro e sospirò.
«Non te la prendere. Era la madre che mi spingeva. Io non ci tengo così tanto. E poi… non so più cosa voglio. La città mi ha stufato. Il lavoro fa schifo. Mia moglie se n’è andata. Tu almeno sei felice?»
Aurora gli versò del tè. Sandro portò la tazza alle labbra e scoppiò in lacrime.
«Sai, venivo anche io qui, d’estate. La nonna faceva i dolci con me. E io credevo che non mi volesse bene. E ora… non ho nemmeno potuto dirle addio».
Aurora tacque. Poi prese l’album della nonna. In una foto, Sandro a sei anni con una manciata di mirtilli.
«Ha amato tutti. Solo in modi diversi. Ma devi scegliere: sei mio cugino o un ladro?»
Sandro se ne andò. La bottiglia la lasciò lì.
L’autunno a Muschiara iniziò con il gelo. L’erba si coprì di brina, la palude si fece silenziosa. La casa era quasi pronta. Aurora infornava già le crostate. I vicini passavano a trovarla. A volte arrivavano quelli che leggevano il suo blog: «Ricominciare dalle ortiche e dal camino». Parlava della casa, delle lettere, della nonna. Finché un giorno arrivò un commento:
«Salve. Sono la nipote di Livia. Quella di cui parlava. Possiamo venire?»
Arrivarono. Una donna di cinquant’anni coi capelli corti e sua figlia. Portarono una foto: nonna Agostina e Livia, davanti alla stessa casa. Sorridevano.
«Mia nonna parlava sempre della vostra», disse la donna. «Diceva che era la sua vera famiglia. Volevano scappare insieme, ma non poterono. Vivere, come poterono. Alla fine, Livia ci chiese di trovare questa casa. Di dirle che non l’aveva dimenticata».
Aurora strinse le lettere, le labbra serrate. Poi annuì:
«Anche lei la ricordava. Tantissimo».
Sandro chiamò in primavera. Offrì il suo aiuto.
«Ora faccio il falegname. Sono rimasto a Muschiara. Qui ti stimano. Non andartene, eh?»
«Non me ne vado, Sandro. Qui sono le mie radici».
«E le mieE con il sole che tramontava dietro la palude, Aurora sorrise mentre il gatto bianco le faceva le fusa sulle ginocchia, sentendosi finalmente a casa in quel luogo dove il passato e il presente danzavano insieme, uniti da un filo invisibile di memorie e radici profonde.