A 70 anni ho scoperto che il vero incubo è avere intorno persone che non ti vogliono.

A settant’anni, ho capito che la cosa più terribile non è una casa vuota, ma una piena di persone per le quali non conti nulla.

“Hai comprato ancora il pane sbagliato,” disse la voce tagliente di mia nuora, Sofia, mentre svuotavo i sacchetti in cucina. “Te l’ho detto mille volte: senza lievito. È la quinta volta che te lo chiedo.”

Prese il filone con fare sprezzante, rigirandolo tra le dita come se fosse un insetto velenoso.

“Scusami, Sofia, mi sono dimenticata. Sono stata occupata.”

“Occupata, sempre occupata, signora Bianchi. Ma poi tocca a noi mangiarne. Luca potrebbe avere un’allergia.”

Lasciò il pane sul tavolo con un’aria di sufficienza, come se mi avesse fatto un favore a non buttarlo via.

Mi morse il labbro. Mio nipote Luca aveva sei anni e non aveva mai avuto allergie al pane normale.

Mio figlio, Marco, apparve sulla porta.

“Mamma, hai visto la mia felpa blu?”

“Sì, Marco. Era sporca, l’ho lavata ieri—”

“Perché? Dovevo metterla oggi!” Sbuffò senza neanche finire la frase. “Mamma, ma davvero!”

Se ne andò, lasciandomi quel “ma davvero!” che ultimamente mi feriva più di uno schiaffo. Avevo lavato i suoi vestiti. Avevo pensato a lui. Eppure, ero ancora quella sbagliata.

Mi trascinai verso la mia camera, passando accanto al salotto dove già Sofia chiacchierava al telefono con un’amica: “La suocera è di nuovo fuori di testa.” La risata dall’altra parte era altrettanto crudele.

La mia stanza sembrava l’unico posto sicuro in quella casa che un tempo era accogliente, ma ora ronzava come un alveare. Voci, urla, televisione, porte sbattute. Tanto rumore. Tanta gente. Eppure, una solitudine che toglieva il fiato.

Mi sedetti sul letto. Per tutta la vita avevo temuto di rimanere sola. Di ritrovarmi in stanze vuote dopo che i miei figli se ne sarebbero andati. Che stupida ero stata.

A cinquantacinque anni avevo capito la verità: non è la casa vuota a far paura, ma quella piena di persone a cui non importi nulla di te.

Sei solo un accessorio. Una funzionale che funziona male. Porta, prendi, lava, ma solo come dicono loro. Un passo fuori posto, ed ecco che sei di troppo, che li infastidisci, che sei d’intralcio.

Quella sera provai un’ultima volta. Marco era assorto nel suo laptop.

“Marco, possiamo parlare?”

“Mamma, sto lavorando, non vedi?” Non alzò nemmeno gli occhi.

“Volevo solo—”

“Dopo, va bene?”

Ma il “dopo” non arrivava mai. Lui e Sofia avevano la loro vita, i loro piani, le loro chiacchiere. Io ero solo uno sfondo. Come un vecchio divano o una lampada sbiadita. Presente, ma invisibile.

Un bussare alla porta. Era Luca.

“Nonna, leggimi.” Mi tese un libro.

Il cuore mi balzò in gioia. Era il mio raggio di sole. L’unico che—

“Luca!” Sofia apparve all’istante. “Te l’ho detto di non disturbare la nonna! Vieni, è ora del tablet.”

Gli strappò il libro e lo trascinò via.

Rimasi seduta a fissare la porta chiusa. In quel momento, capii che non potevo più essere solo uno sfondo. Doveva cambiare qualcosa. O sarei svanita tra queste mura come un fantasma.

La decisione maturò piano. Giorni passati a lavare piatti, fare la spesa, subire quelle piccole spine.

Si consolidò quando trovai nella spazzatura una pentola quasi piena del mio risotto—”troppo grasso, siamo a dieta.”

Decisi di iniziare dal mio spazio.

Quel sabato, mentre tutti dormivano, tirai giù dalla soffitta le scatole con le cose di mio marito.

Libri, attrezzi, vecchie foto. Le disposi in salotto sul tavolo grande. Volevo creare un angolo della memoria, appendere il suo ritratto.

Sofia fu la prima a scendere. Si bloccò sulla porta, come se avesse visto un topo.

“Che succede?”

“Buongiorno, Sofia. Sto sistemando delle cose.”

“Vedo. Non potevi farlo nella tua stanza? Hai messo tutto in disordine. Oggi vengono ospiti.”

“Anche questo è il mio salotto,” dissi con voce ferma, sorpresa io per prima. “E queste erano le cose di tuo suocero. Il padre di Marco.”

Sofia sbuffò e sbatacchiò la caffettiera in cucina. Dieci minuti dopo arrivò Marco, attirato dall’odore del caffè e della ribellione.

“Mamma, cosa combini? Sofia dice che hai fatto casino.”

“Volevo appendere il ritratto di tuo padre. Qui.” Indicai il muro.

“Qui?” Guardò il muro, poi me. “Sei impazzita? Abbiamo un arredamento moderno, che ritratto! Sofia ha trovato uno specchio bellissimo.”

Ecco. Uno specchio. Bellissimo. Più importante della memoria di suo padre.

“Marco, questa è casa mia.”

“Eccoci,” rollò gli occhi. “Sempre con questa storia. Viviamo qui anche noi, sai? Abbiamo fatto i lavori!”

I “lavori” erano una parete della cucina dipinta in un verde acido. Tutto qui.

“Per questo voglio che resti una casa, non un corridoio con specchi alla moda.”

La sera arrivò la conversazione finale. Si presentarono insieme, con facce serie e preparate.

“Mamma, abbiamo pensato,” iniziò Marco, mellifluo. “Questa casa è troppo grande per noi. Le bollette sono alte, pulirla è faticoso.”

Sofia aggiunse, con occhi onesti: “Ci preoccupiamo per lei, signora Bianchi. Sarà dura quando decidessimo di vivere da soli.”

Un brivido mi corse lungo la schiena.

“E dove andreste?”

“Vogliamo vendere la casa,” sbottò Marco. “Compreremo un appartamento nuovo per noi. E per te, un monolocale. Piccolo, accogliente. Ma tutto tuo.”

Li guardai. Non scherzavano. Avevano già deciso. Nella loro testa, avevano già spartito i soldi della mia casa. Della mia vita.

“Vendere… casa mia?”

“Perché dici tua?” sorrise sfacciata Sofia. “Viviamo qui anche noi, contribuiamo. O vuoi che ci logoriamo per mantenere questo palazzo?”

Mi alzai. Le gambe erano molli, ma mi tirai su.

“No.”

“No cosa?” chiese Marco. “Mamma, è vantaggioso per tutti.”

“Ho detto no. Questa casa non si vende. Mai.”

Guardai mio figlio negli occhi. Non c’era altro che freddo calcolo. La maschera della famiglia perfetta era caduta. Non ero un ostacolo.

Ero un problema da eliminare. E lo avrebbero fatto. A qualsiasi costo.

Il mio “no” rimase sospeso. Marco arrossì. Sofia impallidì, le labbra sottili serrate.

“Non capisci,” sibilò lui. “Non è una richiesta. Abbiamo già cercato un agente.”

“Annulla,” risposi calma. Dentro tremavo, ma sapevo che se avessi ceduto, mi avrebbero divorato.

“Vivrai nel tuo monolocale e sarai contenta!” strillò Sofia. “Basta rovinarci la vita con queste fissazioni!”

“Sofia,” la zittì Marco, poi a me: “Mamma, come puoi farci questo? A tuo figlio? Lavoro per la famiglia! Per tuo nipote!”

Era un colpo basso. Ma non funzionò più.

“Mio nipote verrà a trovarmi quiE quando finalmente la porta si chiuse alle loro spalle, respirai l’aria silenziosa della mia casa, libera, mia per sempre.

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