Quella che chiamavo mamma

Quella che chiamavo mamma
Valentina era affacciata alla finestra della cucina, masticando pane raffermo con burro e osservando il cortile del vicino. La mattina era grigia, piovosa, proprio come il suo umore nelle ultime settimane. Oltre il vetro apparve una figura familiare: la signora Anna si dirigeva al portone con borse della spesa pesanti.

“Mamma, la vicina è di nuovo sola con le buste”, gridò Valentina verso la stanza da pranzo, dove Lidia sedeva al tavolo sfogliando una vecchia rivista. “La aiutiamo?”

“Che vicina e vicina…”, borbottò la donna senza alzare lo sguardo. “Un’estranea. Ha un figlio, ci pensi lui.”

Valentina fece una smorfia ma tacque. Ultimamente Lidia sembrava un riccio, tutto pungente e pericoloso da toccare. Eppure un tempo era la prima ad accorrere se qualcuno nel palazzo aveva bisogno.

“Il figlio lavora in Belgio, sai bene”, disse piano Valentina, infilando la giacca. “Vado al negozio, le do una mano con le buste.”

“Va’, va’, la nostra santa patrona”, brontolò Lidia. “Tutti compatisci, e poi ti scordi di me.”

Valentina si fermò sulla porta, voltandosi verso la donna che chiamava mamma da oltre quarant’anni. Minuta, capelli grigi legati in uno chignon stretto, Lidia sembrava ancora più piccola in quella poltrona. Le rughe erano più profonde, le mani le tremavano sfogliando le pagine.

“Ti porto qualcosa?”, chiese Valentina con dolcezza.

“Non mi serve niente. Va’ via, su.”

Sul pianerottolo Valentina incrociò la signora Anna, ferma a riprendere fiato.

“Signora Anna, la aiuto io”, propose Valentina, prendendole una delle buste.

“Oh, grazie piccola!”, sospirò sollevata la vicina. “Di questi tempi non ho più le forze di una volta. È l’età, probabilmente.”

Salirono lentamente, fermandosi ad ogni rampa di scale.

“Come sta la signora Lidia?”, chiese con cautela la signora Anna. “Da un po’ non la vedo in giro.”

“Così così, alti e bassi”, rispose evasiva Valentina. “A volte sta bene, altre un po’ meno.”

“Capisco, capisco. Mia sorella pure…”. La signora Anna tacque, ma Valentina intese quel che non disse.

Dopo aver portato su le buste, tornò a casa. Lidia era nella stessa poltrona, ma non leggeva più. Fissava il vuoto, come cercasse qualcosa.

“Mamma, facciamo una tazza di tè?”, propose Valentina, togliendosi la giacca.

“Mamma…”, ripeté Lidia, e nella sua voce c’era una nota strana. “Tu mi chiami mamma.”

Valentina si irrigidì. Quel tono la mise in allarme.

“Beh, sì, mamma. Come potrei chiamarti altrimenti?”

“Ma io non sono tua madre”, disse piano Lidia, voltandosi verso di lei. “Non sono niente per te.”

Valentina sentì un nodo alla gola. Eccola lì. La cosa che temeva da mesi. Quella da cui distoglieva lo sguardo quando Lidia la fissava smarrita.

“Che dici, mamma?”, Valentina si accovacciò vicino, le prese una mano. “Certo che sei mia madre. La mia vera madre.”

“No”, scosse la testa con ostinazione Lidia. “Ora ricordo. Ricordo tutto. Tu non sei mia figlia. Tu… sei un’estranea.”

Le parole le spezzarono la voce. Sapeva che questo giorno sarebbe arrivato. I medici avevano avvertito che la malattia sarebbe progredita, che la l’aura avrebbe ceduto sempre più spesso. Ma non era pronta a ricordare proprio questo.

“Mamma, ascoltami”, iniziò Valentina, cercando di mantenere la voce ferma. “Hai ragione. Non mi hai partorito tu. Ma mi hai cresciuta. Mi hai amata. Per me sei mia madre.”

“Cresciuta…”, Lidia aggrottò la fronte, come cercando un ricordo. “Sì, ti ho cresciuta. Ti portarono… così piccina. Piangevi sempre, non volevi mangiare.”

“Sì, mamma. Avevo tre anni.”

“Tre…”, ripeté Lidia. “E la tua vera madre? Dov’è?”

Valentina chiuse gli occhi. Questo discorso lo aveva evitato tutta la vita. Lidia non aveva mai svelato i dettagli, lei non aveva mai chiesto. Le bastava avere una mamma che l’amava.

“Non so, mamma. Non me l’hai mai raccontato.”

“Non te l’ho raccontato…”. Lidia rifletté. “Forse ho fatto bene. Non c’è nulla di bello in quella storia.”

Valentina attese, immobile. Lidia tacque a lungo, poi parlò improvvisamente:

“Era la mia amica. Tua madre. Si chiamava Gabriella. Studiavamo insieme all’istituto tecnico, poi lavoravamo nella stessa filanda. Era bella, allegra. Gli uomini la rincorrevano come formiche allo zucchero.”

Valentina ascoltava senza fiato. Per la prima volta in quarant’anni sentiva parlare della sua madre biologica.

“Si sposò giovane, ti ebbe. Ma suo marito si rivelò… un farabutto. Beveva, picchiava. Lei scappò via, ma dove andare con un bimbo? Passò da un’amica all’altra. Poi incontrò un altro uomo, lui voleva sposarla, ma non voleva bambini.”

“E mi abbandonò?”

“Te la portò da noi. Disse: ‘Lidia, aiutami. È solo per un po’, finché mi sistemo’. E lei poi…”. Lidia esitò, come se non avesse il coraggio di finire.

“Cosa, mamma?”

“Partì con quell’uomo. Prometteva di tornare a prenderti tra sei mesi. Non tornò mai.”

Valentina sentì le lacrime scorrere. Aveva sempre sospettato qualcosa del genere, ma sentirlo fece male.

“E poi?”

“Poi capii che eri già mia figlia. Vegliavo le notti quando stavi male. Ti insegnai a camminare, a parlare. La tua prima parola fu ‘mamma’, e la dicesti guardando me”. Lidia sorrise fra le lacrime. “Ricordo quanto fui felice. Pensai: eccola, la mia bambina.”

“Sei sempre stata la mia mamma”, sussurrò Valentina, abbracciandola. “L’unica, la migliore.”

“Lo ero…”, ripeté Lidia. “E ora ti sono estranea. Mi sf
Valentina osservava quell’espressione preoccupata che ogni mattina solcava il viso di Grazia, mentre apriva il quaderno dimenticato sul tavolo della cucina. “Prendi, cara,” sussurrò improvvisamente Grazia, posando il quaderno accanto alla tazzina di caffè nero della mattina, e il suo sorriso tremulo tra le lacrime sciolse ogni timore, “qui dentro custodisco ogni tuo dolce ricordo, piccola mia… per non perderti mai.” E stringendo forte la mano di sua figlia, sentì finalmente un riflesso di pace riscaldarle il cuore, come sempre.

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