La felicità si veste di nero

La gioia giunse in un involucro scuro
Letizia sedeva alla finestra osservando il traffico stradale. Gli autobus frenavano cigolando, i pedoni correvano ai loro impegni, e lei rimuginava sulla stessa cosa: la lettera arrivata ieri. La busta nera con il bordo dorato giaceva sul tavolo della cucina da un giorno intero, ma non aveva ancora trovato il coraggio di aprirla.

“Mamma, perché sei lì come una statua?” Domenico irruppe in casa come un temporale, lanciando la cartella in un angolo. “Di nuovo triste? Meglio pranzare, ho una fame da lupo.”

“Mangia pure,” sospirò Letizia senza distogliere lo sguardo dalla strada. “Ci sono le polpette in frigo, scaldale al microonde.”

Il figlio si fermò a metà stanza, osservando la madre con maggiore attenzione. Qualcosa nella sua postura era rigido, innaturale.

“Che succede?” si avvicinò Domenico. “Sembri… non so, strana.”

“Nulla di grave,” Letizia gli rivolse il viso. “È arrivata una lettera. Sto decidendo se aprirla.”

“Quale lettera? Da chi?”

“Dal notaio. Da Roma.”

Domenico aggrottò le sopracciglia. Le lettere dai notai di rado portavano buone notizie: debiti, cause legali o altri guai.

“E cosa potrebbe contenere?” chiese cautamente.

“Non so. Forse zia Clara ha lasciato qualcosa. Viveva a Roma negli ultimi anni, aveva un appartamentino. Ma non ci sentivamo da un decennio.”

Letizia si alzò, entrò in cucina. La lettera era ancora lì, quasi a deridere la sua indecisione.

“Mamma, apriamola?” Domenico prese la busta. “Sapere la verità può essere così terribile?”

“Peggio di così sì,” borbottò la madre. “E se ci fossero obblighi, i suoi debiti? Non voglio problemi.”

“E se invece fosse una bella notizia?” Domenico stava per strappare la busta, ma un gesto della madre lo fermò.

“Aspetta. Fammi riflettere ancora.”

Ma cosa rimuginarci? Zia Clara era sua cugina, cresciute assieme nello stesso cortile, ma i loro cammini si erano divisi da tempo. Clara aveva raggiunto la capitale dopo il diploma, sposata lì, impiegata in un ente di ricerca. Senza figli, il marito scomparso anni prima. Letizia era rimasta nella sua cittadina, aveva avuto Domenico, restata vedova giovane, lavorando tutta la vita come maestra d’asilo.

L’ultimo incontro risaliva al funerale del nonno, dieci anni prima. Clara le era parsa un’estranea, una signora metropolitana in cappotto costoso che guardava con sufficienza i parenti di provincia.

“Va bene, aprilo,” si decise finalmente Letizia. “Ma se è brutta notizia, ti avevo avvertito.”

Domenico scucì con cura la busta, estraendo fogli scritti. Sfiorò le prime righe e fischiò stupito.

“Mamma, qui dice che zia Clara ti ha lasciato un appartamento a Roma.”

“Cosa?” Letizia quasi fece cadere la tazza del tè. “Che appartamento?”

“Bilocale, vicino alla stazione di Trastevere. E c’è anche un conto bancario…” Sfogliava pagine, gli occhi sempre più sgranati. “Mamma, la somma è notevole.”

Letizia s’accasciò sulla sedia, le gambe improvvisamente molli.

“Non può essere. Non ci parlavamo neppure. Perché avrebbe fatto ciò?”

“Ma qui c’è un biglietto di sua mano.” Domenico porse un foglietto.

“Leti, se leggi questa lettera, io non ci sono più. So che ci siamo allontanate, e di ciò porto io la colpa. Credevo avessi tempo per sanare i legami familiari. Il tempo però sfugge all’improvviso. Voglio che il mio appartamento sia tuo. Sei stata sempre generosa, vissuta per gli altri. Ora pensa a te. La tua Clara.”

Letizia rilesse il messaggio più volte, incredula. Lacrime spontanee le rigarono le guance.

“Com’è possibile?” sussurrò. “È mancata e io neppure lo sapevo. Nessun funerale, nessun addio…”

“Mamma, non colpegnzzarti. Come avrest
Giovanna guardava quei fiocchi di neve che volteggiavano come promesse mantenute, certa che ogni nuovo inizio, per quanto imprevisto, portasse in sé la magia di una seconda giovinezza.

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