La doppia vita di un marito

La doppia vita di mio marito
«Anche stanotte non sei rientrato, Ettore» dissi con voce ferma, glaciale. Dentro di me ribolliva come olio bollente.
«Ho avuto… un’emergenza in ospedale. Paziente critico…»
«Davvero?» sghignazzai. «Allora perché la tua camicia profuma di Chanel n.5 e alle tre di notte eri su Instagram?»
Abbassò gli occhi. Sfregò la radice del naso, sospirò, cominciò a vagare per la stanza.
«Ti spiegherò tutto. Ma non cominciare. Non ora, okay?»
Non cominciai. Anche se volevo urlare, scagliargli la camicia in faccia, ferire il suo orgoglio. Mi trattenni.
Nove anni di matrimonio. Tutto normale: mutuo, nostro figlio Matteo in terza elementare, conto corrente cointestato, l’abitudine di prepararci il caffè a vicenda. Da sei mesi però quel caffè lo preparavo solo io.
Lui usciva all’alba “per l’ospedale” o rientrava a notte fonda. A volte “faceva turni extra”. Ma il mio istinto sapeva: non era un eroe in camice bianco. Era un bugiardo. E aveva un’altra.
In cucina bolliva la kettle. Guardavo dal finestrino il vicino baciare la moglie prima di uscire, accarezzare i capelli della figlia. Un tremito di rabbia mi percorse: e io? Niente per me?
I primi segnali li avevo ignorati. Furto sottile, magistrale. Disattivò la geolocalizzazione: «il telefono va lento». Smise di lasciare oggetti in bagno: «igiene, sono un chirurgo». Teneva il cellulare sempre in mano.
«Chiara, non farti paranoie» ripeteva. «Sai che ti amo. Come potrei cercare un’altra? Non ho nemmeno le forze per te».
Mentre faceva la doccia, presi il suo telefono. La password la sapeva persino il nostro gatto Artù. Messaggini vuoti. Chat cancellate o altrove. Su Instagram? Solo calcio e colleghi chirurghi.
Ma non sono nata ieri. E non mi si fa fesso.
“Se non trovi la verità, cerca chi la conosce.”
Decisi che mio cognato Alessandro sarebbe stato quella fonte.
«Ciao, Ale. Serve una risposta sincera.»
«Chiara! Che succede?»
«Ieri sera eri con Ettore?»
«Ehm… sì, più o meno» esitò.
Capii. “Più o meno”. Ah sì?
«Alessandro, basta coperture: era con te?»
«No» sbuffò. «Non riesco più a coprirlo.»
Immobilità. La verità stava per emergere.
«Quindi ha un’amante?»
Distolse lo sguardo.
«Non esattamente…»
«E allora?»
«Sei sicura di volerlo sapere?»
Il sangue mi martellò le tempie.
«Parla. Subito.»
«Non è solo un’altra… Ha due vite. Nell’Appio Latino… un’altra famiglia. Con una donna. E un bimbo di tre anni.»
Un vuoto d’aria. Paralisi. Sentivo la sua voce ovattata come attraverso cotone.
Un figlio. Da tre anni.
Tre anni di menzogne. Mentre io accompagnavo Matteo a catechismo, stiravo le sue camicie, preparavo lasagne e credevo fossero solo stress lavorativo. Ingenua. Moglie certificata “sciocca di prima categoria”.
«Dove abita?» chiesi senz’accento.
«Non fare cazzate…»
«Dove. Abita.»
Capitolò.
«Appio Latino. Affittano. Quando dice che dorme da me, va lì.»
«Lei sa di me?»
«Certo. Ma Ettore le ha detto che vivete come coinquilini. Solo per Matteo.»
Ah, “solo”. Vedremo come “tieni”, Ettore. Dentro ribollivo di rabbia, trattenendomi a stento.
La sera, cucinai come sempre. Matteo faceva i compiti al tavolo, io tagliavo insalata. Una finta idillio familiare. Ma io ero cambiata per sempre.
Quando Ettore rientrò, lo baciai sulla guancia. Volevo osservare da vicino il volto del traditore.
«Com’è andato il turno?»
«Estenuante» brontolò sedendosi. «Ragazzo con perforazione gastrica…»
«Caro… non hai premura di correre da tuo figlio di tre anni?»
Impietrito. Il cucchiaio a mezz’aria. Poi un tremito alle palpebre.
«Cos’hai detto?» sussurrò.
«Hai udito. So tutto: sull’Appio Latino, su colei, sul bimbo. Sul tradimento.»
Depose il cucchiaio. Lungo silenzio.
«Volevo dirtelo…»
«Quando? Martedì fra tre secoli?»
Tacque.
«Ettore, la verità: ami lei?»
«Non lo so…»
«E me?»
Girò la testa. Quella torsione diceva tutto.
La notte fu insonne. Lui rimase in salotto: l’avevo cacciato dalla camera. All’alba gli preparai una valigia.
«Dove vai?»
«Non vado io. Sei tu che parti. Con bagagli e illusioni.»
«Sei forte, Chiara. Ce la farai.»
«Tu sei un codardo. E questa è libertà.»
Passarono quindici giorni. Chiamate, messaggi, suppliche d’incontro.
«Non puoi togliermi Matteo!» urlò al telefono.
«Tu ci hai già abbandonati. Ora scompaì. Corri dalla tua “emergenza” Sofia e quel “paziente” chiamato figlio.»
Assunsi un avvocato. Scoprii che aveva riconosciuto il bambino. Soldi dal nostro conto. Persino l’auto regalata a lei. Io? Fiori a Natale e “ti amo” automatici. Bravo.
Cedetti alla curiosità. Chiamai Sofia.
«Pronto? Sofia?»
«Sì. Chi parla?»
«Quella che condivide il marito con te.»
Silenzio.
«Chiara?»
«Esatto. Sorpresa?»
«Pensavo… lui ha detto che voi…»
«Non giustificarti. Sappi: hai un uomo capace di mentire per anni. Un giorno forse pre
Attaccai il telefono con la serenità di chi finalmente comprende che la vera forza nasce da un’implacabile onestà verso se stesse, anche quando costa lacrime di fuoco.

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