La felicità torna ad abitare nel cuore

Nella sua anima si era nuovamente insediata la felicità.

Aveva notato più volte Beatrice come suo marito, Marco, si toccasse il fianco sinistro, dove batteva il cuore. Lo faceva con discrezione, quasi sfiorandosi, poi ritirava la mano e si guardava intorno per assicurarsi che la moglie non lo vedesse. Ma lei lo aveva già chiesto più volte:

“Di nuovo ti fa male, Marco? Dovresti andare all’ospedale della provincia.”

“Passerà, capita, fra poco smetterà,” rispondeva sempre lui con le stesse parole.

Nove anni erano passati da quando Beatrice e Marco si erano trasferiti in quel borgo appena laureati. Lui aveva studiato agraria, lei pedagogia. Ma Beatrice non aveva mai insegnato, perché Marco amava la campagna e il cortile era pieno di bestie: due mucche, pecore, un maialino, galline e anatre. Qualcuno doveva badare a tutto, così lei era rimasta a casa, sempre in movimento. Marco lavorava come agronomo.

Beatrice era stata cresciuta dalla nonna dai tredici anni, quando i genitori erano morti in un incendio. Lei, per fortuna, quella notte era a casa della nonna. Marco era nato in quel borgo. Dopo il matrimonio, però, in tre anni suo padre era morto d’infarto, e quasi due anni dopo anche sua madre se n’era andata.

Rimasti soli, sembrava tutto andare bene, tranne una cosa: non avevano figli. Aspettavano, speravano, Beatrice piangeva di nascosto, pregando Dio di mandargli un bambino. Ma nulla.

Quel mattino, Marco fece colazione e si preparò per il lavoro, ma all’improvviso si afferrò il petto. Prima che Beatrice potesse avvicinarsi, crollò a terra. Il cuore si era fermato. L’ambulanza arrivò in fretta, ma era già tardi.

Dopo il funerale, Beatrice pianse a lungo, sola con i suoi pensieri.

“A trent’anni, sono rimasta sola. Perché la vita deve essere così ingiusta? Amavo tanto mio marito, e Dio me l’ha portato via. Tutti. Che colpa ho?”

La mattina andava nella stalla, mungeva le mucche e piangeva.

“Perché mi serve tutto questo? Lo faccio per pietà, perché le bestie devono mangiare, le mucche vanno munte…” singhiozzava, pensando che nessuno la sentisse.

Ma la sentiva Teresa, la vicina, vicepreside della scuola. Un giorno la raggiunse.

“Beatrice, ti sento piangere. Capisco. Vendi tutto il bestiame, perché tenerlo da sola? So che nella scuola del paese vicino manca un’insegnante elementare. Potresti andare lì. Da noi i posti sono coperti, ma lì hanno solo la primaria, poi i ragazzi vengono qui. Sono appena cinque chilometri. Staresti tra la gente, ti distrarresti. Accetta, sei una maestra.”

“Grazie, Teresa, hai ragione…” acconsentì Beatrice.

Quell’estate vendette tutto e, a settembre, si trasferì nel borgo vicino. Arrivò la gentile Beatrice Martini, sistemata in una grande casa. Pulì ogni angolo, lavò i vetri, mise tutto a posto.

“Ecco, ricomincio,” si diceva ad alta voce. “Ma il recinto è caduto, il cancello non chiude, devo aggiustarlo.”

Chiese aiuto, le diedero le assi per il recinto. Ma doveva sistemarlo da sola.

“Caterina,” chiamò la vicina, che stendeva il bucato, “sai a chi posso rivolgermi per il recinto? Ho il materiale.”

Caterina si asciugò le mani sul grembiule e si avvicinò.

“C’è Michele, un falegname bravissimo, ma beve. Senza vino non fa niente. È tutta colpa di Veronica, sua moglie. Da quando si sono sposati, bevono entrambi. Lei l’ha trascinato giù. Hanno due bambine, di quattro e due anni, ma sei mesi fa i servizi sociali le hanno portate via. Non andare da loro, vedrò Michele e glielo dico io.”

“Grazie.”

Il giorno dopo, Caterina tornò.

“Ho visto Veronica davanti al negozio. Domani verranno. Compra un paio di bottiglie di vino, altrimenti non lavorano.”

E infatti arrivarono la mattina, entrambi con l’alito pesante. Michele buttò gli attrezzi in cortile e si guardò attorno. Beatrice uscì.

“Salve, padrona,” strillò Veronica, mentre Michele annuiva.

Aveva i capelli arruffati, la barba lunga, ma gli occhi erano chiari e vivi. Per un attimo, Beatrice trattenne il respiro: le ricordavano quelli di suo marito.

“Ecco le assi,” indicò.

“Lo vediamo, lo vediamo,” borbottò Veronica, sedendosi sui gradini. “Porta da bere, abbiamo bisogno di un bicchiere.”

Aprì la bottiglia, versò a sé e a Michele. Lui bevve e si mise al lavoro.

“Se continuano così, come farà?” pensò Beatrice. Ma decise di tacere.

Eppure, nonostante il vino, Michele lavorava bene. Tutti sapevano che, se accettava un lavoro, lo finiva. Veronica gli stava sempre accanto, versandogli da bere. Al calar della sera, terminò.

“Padrona,” gridò ubriaca Veronica, “vieni a vedere.”

Beatrice osservò il recinto nuovo, dritto, con il cancello e un gancio per tenerlo chiuso dal vento.

Le piacque il lavoro. Pagò e li ringraziò.

“Se hai bisogno, chiamaci,” disse Veronica, mentre Michele annuiva e se ne andò.

L’inverno arrivò. Beatrice insegnava, ormai a suo agio, grata a Teresa. Il dolore si era attenuato, i bambini la riempivano di gioia. Amavano la maestra Martini, e lei ricambiava con dolcezza.

Una notte, poco prima dell’alba, un colpo alla porta la svegliò. Guardò l’orologio: le sei.

Pensò di aver sognato, ma il colpo si ripeté. Aprire: era Michele.

“Veronica è morta,” sussurrò. “Non l’ho sentita uscire. L’ho trovata vicino a casa tua… congelata. Ieri sera abbiamo bevuto, forse è uscita per trovare altro vino e ha trovato la morte. Non so cosa fare. È lì…”

La seppellirono insieme, tutto il paese aiutò Michele. Lui bevve per una settimana. Poi, un altro colpo alla porta.

“Oggi sono nove giorni,” disse. “Preghiamo per lei.”

Beatrice sorprese. “Hai tanti amici, perché vieni da me? Non bevo. Ma va bene, entra.”

Lui si sedette, versò il vino. Beatrice lo assaggiò per educazione, lui lo finì.

“Come spiegherò alle mie figlie quando chiederanno della mamma? Non me le ridaranno mai, e mi mancano tanto.” Tirò fuori una foto sgualcita: due bambine con i suoi occhi.

“Dio mio, hanno i tuoi occhi,” disse Beatrice, il cuore stretto. “Se fossero mie…” Le venne un’idea.

“Perché non ci sposiamo? Io prenderei le bambine. Da sola non me le darebbero, serve una famiglia. Tu vivi come vuoi, non ti chiederò nulla. Mi dispiace troppo per loro. Non scherzo, Michele. Facciamolo.”

Si sposarono. Tutti nel paese li criticavano.

“Non poteva trovare un uomo migliore?”

Solo Caterina capiva. E Beatrice non si giustificava. Raccolse i documenti, andò negli uffici e, finalmente, portò a casa le bambine.

Michele, al vederle, scoppiò in lacrime. Loro lo riconobbero.

“Papà! Ma sei sporco e puzzi,” disse la maggiore,

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