È mia sorella!” gridò lui, mentre la sorellina arrostiva carne tra i miei fiori… La mia risposta raggiunse due metri!

— Ma è mia sorella! — gridò l’uomo quando la sorellina organizzò un barbecue proprio sulle mie rose! La mia reazione raggiunse i due metri di altezza…

Immaginate la scena: abbiamo ereditato una villetta dalla suocera. Beh, villetta… solo per modo di dire. Una casetta malandata, una recinzione di tre assi sgangherate e un terreno invaso da erbacce fino alla vita. Mio marito, come la maggior parte degli uomini, ha dato un’occhiata e ha detto: «Ma lasciamo perdere, meglio venderla».

Io… beh, sono testarda di carattere! Mi sono aggrappata a quel fazzoletto di terra. Già immaginavo quanto sarebbe stato bello. Per un anno intero ho vissuto per quella villetta. Ci ho investito quasi tutti i nostri risparmi e, naturalmente, tutte le mie energie.

Ho pitturato la casetta da sola, ho assunto operai per riparare il tetto. Ma la cosa più importante: ho piantato un giardino. E non semplici aiuole, ragazze, ma una piccola Inghilterra in miniatura! Rose, peonie, ortensie… Le curavo come fossero figlie mie.

Mio marito all’inizio rideva, ma quando ha visto il risultato, ha persino iniziato a rispettarmi. «Beh, Luisa, non hai rivali!» — diceva guardando le mie aiuole fiorite. Ero felice. Avevo trovato il mio angolo di pace, la mia valvola di sfogo.

Ma la pace durò poco. Mia cognata, la sorella di mio marito, Antonella, venne a sapere della nostra “villetta”. Una signora di città, totalmente disinteressata alla terra, ma adora “rilassarsi” in campagna… soprattutto se qualcun altro ha già fatto tutto il lavoro.

Un sabato, senza preavviso né telefonata, una macchina si parcheggia nel nostro vialetto. E ne esce l’intera comitiva di Antonella: lei, suo marito e i loro due bambini ingestibili.
«Luisina, ciao-oo! Siamo venuti per un barbecue!» — strilla dalla porta.

Io, ovviamente, sono sbalordita, ma che fare? Sono parenti. Mostro loro la casa, offro del tè. Loro, senza nemmeno togliersi le scarpe, si siedono direttamente sulla veranda appena pulita. E comincia l’inferno…

Ragazze, non era un picnic, era un’invasione barbarica. Suo marito ha piazzato il suo enorme barbecue sopra la mia aiuola di rose rampicanti. I bambini correvano come pazzi, calpestando le peonie e spezzando le ortensie.

Antonella invece se ne andava in giro come una regina, dando ordini: «Luisa, portaci dei cetrioli!», «Dove sono gli asciugamani puliti?». Dopo di loro restavano montagne di rifiuti, l’erba calpestata e i rami delle mie piante preferite spezzati.

Io rimasi in mezzo a quel disastro, trattenendo a stento le lacrime.

E quello, care mie, fu solo l’inizio. Cominciarono a venire ogni weekend. Senza vergogna! Non pulivano, non lavavano i piatti. Una volta arrivai e scoprii che avevano usato i miei guanti da giardinaggio nuovi per pulire la griglia!

Quella sera parlai con mio marito. Gli spiegai, come a un bambino, che avevo messo anima e corpo in quel posto, che mi faceva male vedere tutto distrutto. Lui, il mio tenerone, sospirò soltanto.

«Luisa, ti capisco. Ma pazienta, è mia sorella! Non possiamo dirle di no. Siamo una famiglia. Evitiamo scenate».

In quel momento capii: la scenata era inevitabile. La mia “piccola Inghilterra” si stava trasformando in un parcheggio per barbecue, e la mia “famiglia” mi stava calpestando. Il piano di vendetta maturò all’istante. Freddo. Alto.

La settimana dopo prelevai una bella somma dal nostro conto comune. Quando la sera mio marito vide l’SMS, gli uscirono gli occhi dalla testa.

«Luisa, ma sei impazzita?! Dove sono finiti tutti quei soldi?!»
«Per rafforzare la famiglia, amore» — risposi con il mio sorriso più enigmatico. «Presto vedrai».

Il sabato seguente, in villetta, c’era un viavai di operai. Lavoravano veloci, come se sapessero che il tempo stringeva. Mio marito vagava nervoso, senza capire. Io, invece, seduta su una sdraio con un bicchiere di tè freddo, osservavo e davo indicazioni.

Alle sei in punto, quando l’ultimo bullone fu stretto, avrei dato qualsiasi cosa per vedere la faccia di mio marito. Al centro del giardino ora svettava un solido recinto di lamiera, alto due metri, che divideva il terreno in due.

Da una parte: la nostra casetta, la veranda e le mie aiuole. Dall’altra: la zona “barbecue” abbandonata e il vecchio capanno. Nel recinto avevo fatto installare un cancelletto, piccolo ma con una bella serratura a lucchetto.

«Ma… cos’è questa roba?» — borbottò confuso.

«Questo, caro, è il nostro “compromesso familiare”» — risposi calma. «Questa metà è mia. Qui comando io. Quella metà è per la tua amatissima famiglia. Tua sorella può anche stare a testa in giù e cuocere la carne, ora ha il suo spazio».

E come per magia, arrivò la macchina di Antonella. Scese, vide il recinto e si bloccò. La sua faccia… ragazze, era un miscuglio di shock, confusione e sacro sdegno.

Cominciò a gridare, a chiamare mio marito, a chiedere spiegazioni… Io intanto spostai la mia sdraio dietro il recinto nuovo, nel mio regno.

Ditemi sinceramente, care: sono stata troppo dura? O forse, a volte, per proteggere il proprio piccolo paradiso, serve semplicemente un recinto molto, molto alto?

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