Affittacamere: Una Storia di Convivenza e Vita Condivisa

**LA PENSIONANTE**

Eugenio Vittorio, un tecnologo di quarant’anni, lasciò la moglie. Abbandonò l’appartamento e tutti i beni, portando con sé solo una vecchia Fiat 500 ereditata dal padre, nella quale caricò una valigia con i suoi effetti personali.

Non volle occuparsi della divisione dei beni: «La figlia sta crescendo, che tutto resti a lei», disse. Con la moglie non c’era più intesa da tempo; negli ultimi anni, le uniche parole che le aveva sentito pronunciare erano: «Dammi soldi». Eugenio le consegnava lo stipendio, i bonus, la tredicesima, eppure, inspiegabilmente, a lei non bastavano mai. Si impegnò a pagare gli alimenti ogni mese e, oltre a ciò, ad aiutare la figlia.

Per un po’ visse da un amico, poi gli fu assegnata una stanza in un dormitorio, e in quanto specialista di valore, fu inserito nella lista d’attesa per una casa. Era l’Italia degli anni ’80, quando ancora si poteva ottenere un alloggio popolare senza doverlo comprare.

Eugenio trascorse due anni nel dormitorio, mentre l’azienda costruiva un palazzo di nove piani. Un giorno, fu chiamato in sindacato: «Eugenio Vittorio», disse il presidente, «vive da solo, le spetterebbe un monolocale, ma possiamo offrirle un bilocale, anche se piccolo. Lei è un tecnico eccellente, un dipendente prezioso: ecco le chiavi».

Eugenio rimase senza parole: «Grazie, sono felice di avere finalmente una casa mia».

Un mese dopo, raccolse le sue poche cose—soprattutto libri di tecnica—, le caricò sulla stessa Fiat, e partì per il nuovo appartamento.

L’ascensore non funzionava ancora, così salì a piedi fino al quinto piano. Con il cuore in gola, si fermò davanti alla porta numero settantadue, infilò la chiave nella serratura.

«Cos’è questa magia?», si stupì, «la chiave non gira».

Dietro la porta sentì un fruscio e dei sussurri. Bussò, chiedendo di aprire, ma non ebbe risposta. Allora scese, trovò un fabbro, e insieme forzarono l’ingresso. Dentro, l’appartamento era occupato: le cose non erano ancora sistemate, sparse alla rinfusa. Nell’ingresso, una donna lo fissò spaventata:

«Non me ne vado, e non avete il diritto di cacciarmi. Ho dei bambini», disse.

Eugenio notò due ragazzini di sette e otto anni, anch’essi impauriti. Cercò di spiegare che l’appartamento era suo, che aveva il contratto, mentre lei vi si era introdotta illegalmente.

«Provaci pure a buttarci fuori, al freddo», gridò la donna disperata, «in mezzo alla neve».

Eugenio se ne andò. Raccontò tutto al sindacato, e presto emerse la verità: la donna, di nome Lucia, era vedova, il marito morto in un incidente, e viveva in un casermone fatiscente con pochi ubriaconi come vicini. D’inverno, nonostante la stufa, il freddo entrava da ogni fessura. Lucia aveva bussato a ogni porta del comune, in lista d’attesa da anni, ma continuavano a rimandarla. Alla fine, aveva preso possesso di quell’appartamento nuovo.

«La sfratteremo», disse deciso il presidente, «faremo causa e la manderemo via. Ci vorrà tempo, ma la pazienza è virtù».

«Non si potrebbe risolvere in modo pacifico?», propose Eugenio, «magari parlandole».

«Provi pure, ma dubito che ascolti», scrollò le spalle il presidente, «queste madri con i figli sono come belve: non conoscono leggi».

Eugenio tornò all’appartamento, sperando di ragionare con lei. Stavano aggiustando la serratura rotta.

«Parliamone civilmente», disse Eugenio, «capisca che ha occupato una casa che non è sua. La legge non è dalla sua parte».

«E tu credi che sia giusto che a te sia toccato questo appartamento?»

«Certo che è giusto, lavoro in azienda da vent’anni, ho il contratto in regola».

«Io ho dei bambini, e non tornerò a gelare in quella baracca».

«Lo capisco, ma perché proprio il mio appartamento? Proprio in questo palazzo?»

«È andata così. A te ne daranno un altro, visto che sei così importante».

Eugenio se ne andò a mani vuote. Intanto, le pratiche per lo sfratto di Lucia erano già partite. Le autorità le avevano già intimato di lasciare l’alloggio.

Quando seppe che l’avrebbero semplicemente cacciata al freddo, costringendola a tornare nel casermone gelido, Eugenio tornò da lei. La trovò affranta, gli occhi gonfi di pianto, i bambini stretti a lei.

«Dovrete andarvene comunque», disse Eugenio, «la mia stanza nel dormitorio non è più mia, e non ho altro dove stare».

Lucia sospirò e si sedette.

«Perché il comune non le assegna una casa?», chiese Eugenio, «è in lista, no?»

«Sì, ma quel funzionario prepotente mi rimanda sempre indietro: “Aspetti”, dice».

«Andiamo», propose Eugenio.

Lucia accettò, e si recarono al comune. Di solito timido, Eugenio sentì una forza nuova: inventò una scusa alla segretaria e quasi irruppe nell’ufficio con Lucia.

«Questa donna è in lista d’attesa da anni, e voi la rimandate sempre. Forse è il caso di verificare come vengono gestite le assegnazioni?»

Il funzionario si ammorbidì, sorrise e spiegò che la sua volta sarebbe arrivata tra due mesi, in primavera: un bilocale in un nuovo palazzo. Eugenio controllò persino i documenti, dove era annotato l’indirizzo futuro di Lucia.

«Se non le daranno quell’appartamento, farò un esposto», disse Eugenio prima di andarsene.

Tornata a casa, Lucia iniziò a preparare le valigie: «Tornerò al casermone, avete già fatto troppo per noi», disse.

«Ecco cosa faremo», propose Eugenio, «voi prendete il soggiorno, io la camera da letto, il resto è in comune. Quando la vostra casa sarà pronta, ve ne andrete. Vivete qui come una pensionante, con una sola condizione: non vi chiederò un soldo».

Lucia, sorpresa da tanta generosità, scoppiò in lacrime.

Eugenio lavorava a un nuovo progetto, tornava tardi la sera, ma in cucina trovava sempre la cena pronta. Al mattino, Lucia preparava la colazione per i bambini e per lui. Cercò di darle dei soldi, ma lei rifiutò: «Almeno così posso ringraziarvi», diceva.

Una sera, bussarono alla porta. Era l’ex moglie, che non si faceva viva da tre anni.

«Dicono che hai preso una mantenuta», disse subito.

Stava per aggiungere altro, ma Eugenio la spinse fuori e, visto che non aveva altro da dire, la invitò a tornarsene a casa.

Lucia si agitò, imbarazzata dalla visita, ma Eugenio la rassicurò: l’ex moglie e la figlia avevano un bel bilocale.

In primavera, finalmente, a Lucia fu assegnato l’appartamento. Eugenio la aiutò a traslocare. Con le lacrime agli occhi, lei si congedò dal suo cavaliere generoso: «Grazie, Eugenio Vittorio, per il suo cuore buono, per avermi dimostrato che al mondo esistono ancora persone come lei».

Mentre Lucia si sistemava, a Eugenio capitò una disgrazia: si ruppe una gamba, tanto grave da finire in ospedale. I colleghi andavano a trovarlo, la figlia anche.

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