– Non capisco che cosa vi crediate di fare! Quando è verde bisogna andare, non stare fermo! – la signora anziana sul sedile posteriore tamburellava con le dita la borsa di pelle.
– Mi scusi, ma c’è un’auto ferma davanti, non la posso sorpassare – risposi con calma, senza voltare la testa.
– È fondamentale arrivare in orario per l’incontro con mia figlia! Trovi una via alternativa! – insisteva la passeggera.
– Vede, è un ingorgio. Facciamo un po’ di pazienza, andrà tutto bene – dissi guardando nello specchietto retrovisore.
– Signore mio, che incubo! – la donna si lasciò indietreggiare sulla schiena del sedile e sospirò a pieni polmoni. – Sempre tutto va storto. Prima la lite, ora il ritardo…
L’auto avanzava a passo d’uomo lungo una via trafficata di Roma. Io, Giovanni Bianchi, osservavo la signora attraverso lo specchietto. Una donna di circa sessanta anni, elegante in un completo grigio chiaro, con i capelli raccolti in un taglio ordinato, giocherellava nervosamente con la chiusura della borsa. Le labbra tremolavano appena.
– Sa, a volte gli appuntamenti più importanti arrivano con un po’ di ritardo. Il destino ci regala il tempo per raccogliere i pensieri – dissi all’improvviso.
Lei mi fissò sorpresa.
– È davvero lei? – chiese.
– Sì. Ha accennato alla lite. Forse questo ingorgio è l’occasione per pensare a cosa dire a sua figlia quando la rivedrà? – la mia voce era profonda e rassicurante.
– Non volevo consigli, però… – replicò, poi sospirò di nuovo. – In effetti, ho litigato con la figlia. Vuole andare a vivere in Argentina, dice che qui non c’è futuro. Io mi sento sola.
– Io mi chiamo Giovanni – mi presentai. – In taxi ascolto spesso le storie dei passeggeri. Forse la mia esperienza le può tornare utile.
Lei si presentò: “Valentina Serafina”.
– La figlia pensa che in Argentina troverà migliori opportunità. Ma che cosa ha lasciato lì? – le dissi, mentre il semaforo diventava rosso.
Valentina mi raccontò che la figlia, una giovane designer, aveva deciso di trasferirsi a Buenos Aires per un progetto di moda.
– Mio figlio è partito dieci anni fa per il Canada – intervenni. – All’inizio ero contrario, poi ho capito che non potevo trattenerlo.
– Come ha fatto a superare il senso di abbandono? – chiese Valentina, curiosa.
– All’inizio ho rifiutato le sue chiamate, mi sono chiuso in me stesso. Ma poi ho capito che il risentimento è come una pietra pesante in tasca: ti appesantisce senza motivo. Ho iniziato a parlare con lui via video, ogni settimana. Ora i nipotini mi chiamano “nonno Gianni” e l’anno scorso li ho visitati in Canada, la prima volta che ho messo i piedi fuori dall’Italia.
– E il figlio le chiama? – incalzò Valentina.
– Sì, ogni giorno. E i nipotini mi mandano foto dei loro disegni. La distanza è più un’idea che una realtà.
Valentina guardò fuori dal finestrino, pensierosa.
– Non capisco perché la figlia sia così insoddisfatta, ha un lavoro buono, un appartamento…
– Ha mai chiesto veramente il perché, senza giudizi? – le risposi, girando delicatamente il volante per evitare una buca. – Io ho iniziato a guidare i taxi solo dopo la pensione. Trenta anni li ho passati in una fabbrica di macchine come ingegnere. Ho capito che la gente ha più bisogno di essere ascoltata che di ricevere consigli.
– Davvero? – chiese Valentina, un sorriso timido apparve.
– L’altro giorno ho accompagnato un giovane studente che aveva dimenticato l’anello di fidanzamento. Lo abbiamo recuperato, e mi ha chiamato per ringraziarmi quando la sua ragazza ha detto “sì”.
Valentina rise.
– Il suo lavoro è interessante, Giovanni.
– Le persone lo sono, – la correggii. – Ognuno porta con sé una storia. In quindici minuti di corsa ho capito che è una madre che teme di restare sola.
– Lo dice così facilmente… – commentò Valentina, tirando fuori un fazzoletto.
– Perché è naturale temere la solitudine, ma è ancora più naturale desiderare la felicità dei propri figli, anche se quella non corrisponde ai nostri piani. – le dissi.
Valentina si asciugò gli occhi.
– Come ha capito che il figlio fosse meglio in Canada?
– Non ho capito, l’ho semplicemente accettato. E, a dire il vero, quando ho smesso di tirarlo indietro, la nostra relazione è diventata più vera. Ora parliamo di tutto, senza filtri.
Il semaforo divenne verde e la macchina riprese a muoversi.
– Valentina Serafina, scusi la franchezza, ma ho l’impressione che non stia andando a riconciliarsi con la figlia, ma a convincerla a restare. – le dissi, accennando a una svolta.
Lei abbassò lo sguardo.
– Probabilmente sì. Ho preparato un discorso su tradizioni, su come non si possa abbandonare i genitori…
– E se oggi si limitasse ad ascoltare? – suggerii, mentre acceleravamo. – Chieda perché proprio l’Argentina, cosa l’attira lì. Forse un amore, un’opportunità, un’amica?
– Ha un’amica a Buenos Aires – ammise. – Dicono che ci siano condizioni particolari per i designer.
– Allora perché non informarsi insieme? Mostrare rispetto per la sua scelta, magari promettendo una visita? – proposi.
Valentina esitò.
– Non ho mai volato, non ho mai lasciato l’Italia.
– Anch’io, fino a sessantadue anni, non avevo mai messo piede su un aereo. Poi ho capito: la vita è una sola, e la paura è solo un’ombra. Quando sei in volo, la paura svanisce.
Guardò i fiori di melo lungo la strada, ancora in piena fioritura primaverile.
– E se non tornasse? – chiese a bassa voce.
– E se tornasse? – risposi. – O se lei stessa si innamorasse del viaggio e decidesse di trascorrere parte dell’anno con voi. La vita è piena di sorprese, Valentina.
– È un uomo straordinario, Giovanni. Un vero filosofo del volante.
– Ho solo sbagliato tanto e ho imparato a non sprecare il tempo in rancori. Quando mia moglie era viva, litigavamo spesso per il mio carattere. Ora