15 ottobre 2023 – Diario di Marco
Quando decido di dare una mano a qualcuno, devo sempre stare all’erta. Un gesto di buona volontà perde valore in un batter d’occhio. Il primo aiuto suscita ammirazione, poi gli altri cominciano a credere che per me sia “un gioco da ragazzi”, che abbia sempre “qualcosa in più”. Tempo, denaro, energie e risorse cominciano a scorrere senza sosta.
Il pericolo è sottile: l’assistenza può trasformarsi in una sorta di fardello. All’inizio ti ringraziano con riverenza, si inchinano quasi. Poi chiedono cortesemente, e poco dopo avanzano pretese. Quando non riesco più a soddisfarle, la gente ti guarda come se avessi tradito un patto, come se avessi rubato uno stipendio o non avessi restituito un debito.
Nel loro modo di pensare, sei diventato “un benefattore”, quindi devi continuare a “fornire”. La tua gentilezza è stata inserita nella loro lista dei “ricavi programmati”. Si aspettano che tu sia sempre il salvatore; se un giorno ti rifiuti, ti considerano colpevole.
Un’altra verità amara è che il tuo aiuto può generare invidia. “Se lui può dare, è perché ha un surplus. Perché a lui la fetta è grande e a me solo una briciola?” Così il tuo sostegno non è più visto come dono, ma come un’umiliazione.
Quando finalmente dico: “Scusa, non ce la faccio più”, invece di compassione sento rimproveri e accuse. Ho vissuto più volte una storia simile: gratitudine sincera all’inizio, seguita da richieste, poi da pretese, e infine da rabbia e svalutazione di tutto ciò che ho fatto.
L’aiuto, se non controllato, trasforma il sostenitore in “debitore”. Basta fermarsi un attimo e ti trasformi nel colpevole. Perciò, prima di stendere la mano, è bene riflettere dopo il secondo o terzo appello: la tua bontà rischia di diventare “una servitù a vita”. Spesso non ti chiedono gratitudine, ma un obbligo infinito. Il finale è sempre lo stesso: il vecchio eroe si trasforma in “traditore”. Il bene, se puro e disinteressato, non ha debiti: o viene apprezzato o perde valore in un attimo, e non è più colpa tua.
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Bonus
La mia amica Nadia aveva una compagna di infanzia, Ginevra, con cui si sostenevano sempre. Quando Ginevra perse il lavoro, Nadia intervenne subito: le diede dei soldi, la presentò a conoscenti e, per alcuni mesi, la ospitò a casa sua a Roma.
All’inizio Ginevra ringraziava quasi ogni giorno. Poi si abituò. E infine cominciò a considerare quell’aiuto come un diritto.
— Sei l’unica per me, mi salverai sempre, vero? — ripeteva ogni volta che chiedeva altro.
Nadia continuava a dare. Un giorno, però, disse:
— Scusa, non posso più. Anch’io sto attraversando un periodo difficile.
Subito Ginevra cambiò tono.
— Contavo su di te! Mi avevi promesso! Come può un vero amico comportarsi così?
Tutto quello che Nadia aveva costruito negli anni svanì dalla sua memoria. Rimase solo il rimprovero: “non mi hai aiutata quando ne avevo bisogno”.
Il colpo più doloroso non fu il denaro o il tempo perso, ma la consapevolezza che quella non era amicizia vera, ma solo l’abitudine di prendere.
Fu allora che Nadia comprese la lezione fondamentale: l’aiuto vale solo quando è accolto con gratitudine. Quando al suo posto arriva l’esigenza, non è più sostegno, ma sfruttamento.
Da quel momento aiuta solo chi è disposto a tendere la mano a sua volta. Sa bene che il bene deve essere reciproco; altrimenti si trasforma in catene.