Il biglietto che ha cambiato la mia vita

**Il biglietto che mi cambiò la vita**

A sessantadue anni, non avrei mai immaginato di finire a dormire sul divano letto nel soggiorno di mio figlio. Tutta la mia vita, ridotta a due valigie e una borsa a mano. Le carte del divorzio erano ancora calde dalla stampante dell’avvocato quando Marco, il mio unico figlio, mi offrì quella che chiamò “una soluzione temporanea”. Temporanea. Come se il crollo di un matrimonio di trent’anni fosse solo un fastidio passeggero.

La luce del mattino filtrava attraverso le immacolate tende bianche di Elisabetta, sua moglie, disegnando ombre sul pavimento di legno che non potevo calpestare con le scarpe. Ogni regola in quella casa era tacita ma assoluta: non usare gli asciugamani buoni, non toccare il termostato, non cucinare nulla che lasciasse odore. Ero diventata un fantasma, in bilico ai margini di una vita perfetta che non mi apparteneva.

«Mamma, sei sveglia presto» apparve Marco sulla porta della cucina, già vestito con il suo completo grigio antracite. A trentacinque anni, aveva ereditato la mascella decisa di suo padre e la mia testardaggine, anche se sembrava aver dimenticato da dove venisse quest’ultima.

«Non riuscivo a dormire» risposi, preparando un caffè istantaneo con acqua scaldata al microonde. La macchinetta del caffè buona era proibita: «È un regalo di nozze» mi aveva spiegato Elisabetta con un sorriso tirato.

Marco si agitò nervoso, come quando era bambino e doveva confessare qualcosa.
«Elisabetta e io abbiamo parlato» iniziò. «Pensiamo che forse dovresti cercare qualcosa di più… permanente.»

Il caffè mi diventò amaro in bocca.
«Soluzioni permanenti?»
«Residenze per anziani. Ora hanno programmi eccellenti.»
«Certo» appoggiai la tazzina sul tavolo con più forza del necessario. «Che sciocca a credere di poter restare finché non mi rimettevo in piedi.»
«Non fare così. Sai che vogliamo aiutarti.»
«Aiutarmi?» La parola uscì più tagliente di quanto volessi. «Marco, ieri hai portato la madre di Elisabetta a vedere quel nuovo complesso di appartamenti in Via dei Tigli. Quello con i piani di marmo.»

Il suo pomo d’Adamo si mosse.
«È diverso. Sua madre ha esigenze specifiche.»
«La mia esigenza specifica è un letto che non sia il tuo divano.»

Elisabetta apparve allora, i capelli biondi raccolti in una crocchia perfetta. Si muoveva per la cucina con efficienza studiata, evitando il mio sguardo.
«Buongiorno, Marta» disse senza alzare gli occhi. L’uso del mio nome per esteso era un costante promemoria: non ero famiglia, ma un’ospite che aveva oltrepassato il limite.

La stanza degli ospiti, usata per riporre scatoloni, era stata svuotata e ridipinta di giallo chiaro la settimana prima, pronta per il loro primo figlio. Elisabetta non mostrava ancora la pancia, ma avevano già cominciato a comprare culle.
«Elisabetta ha bisogno dello spazio per preparare la cameretta» spiegò Marco. «È molto stressata.»
«Non ho chiesto di restare per sempre, Marco. Solo finché non trovo un’altra sistemazione.»

Elisabetta finalmente mi guardò, gli occhi verdi freddi e calcolatori.
«Marta, credo tu non capisca. Si tratta di limiti. Di ciò che è appropriato.»
«Appropriato?» ripetei. «E cosa sarebbe appropriato per una donna il cui marito di trent’anni l’ha scambiata per la sua segretaria?»
«Mamma, non…»
«Marco, fammi capire. Il tuo bambino non ancora nato ha più bisogno di una stanza di tua madre senza una casa? È così?»

Il sangue sparì dal volto di Marco.
«Non sei senza casa. Hai opzioni. Papà ti ha offerto l’appartamento in Sicilia.»
«Tuo padre mi ha offerto un monolocale a mille chilometri, solo se avessi rinunciato a metà dei beni. Molto generoso.»

Il rumore del frullatore di Elisabetta coprì ogni risposta. Quando il motore si fermò, il silenzio era più pesante.
«Se volevi comodità» disse Marco alla fine, a bassa voce, «avresti dovuto restare sposata con papà.»

Le parole mi colpirono come un pugno. Guardai mio figlio, l’uomo che avevo cresciuto, nutrito e amato senza condizioni, e vidi uno sconosciuto.
«Capisco» dissi, lasciando la tazzina nel lavandino. «Grazie per avermi chiarito il mio posto qui.»

Passai la giornata a cercare affitti sul telefono, ricalcolando i miei risparmi miseri. Avevo esattamente ottocentoquarantasette euro sul conto. A sessantadue anni, senza lavoro e senza credito, era come avere ottanta centesimi.

Quella sera uscii al negozio all’angolo. Alla cassa, fissai la vetrina dei biglietti della lotteria. Il SuperEnalotto era a duecento milioni. Mi sentii dire:
«Un quick pick, per favore.»

Il signor Rinaldi inserì il biglietto nella macchina. Ne uscì un rettangolino di carta: 7, 14, 23, 31, 42. Numero jolly 18.
«Buona fortuna» mi disse, dandomi il resto. Otto euro. Tutto ciò che mi restava.

L’appartamento era vuoto quando tornai. Un biglietto sul piano cucina: Marco ed Elisabetta erano andati a cena da sua madre. Naturalmente. Mi sistemai sul divano e accesi la televisione.

Alle 23:17, i numeri del SuperEnalotto apparvero sullo schermo.
7, 14, 23, 31, 42. Numero jolly 18.

Rimasi a fissare lo schermo, convinta di avere le allucinazioni. Tirai fuori il biglietto con mani tremanti e confrontai i numeri ancora e ancora. Tutti corrispondevano. Il biglietto cadde a terra mentre sprofondavo nei cuscini. Duecento milioni di euro. Dopo le tasse, abbastanza per non dormire mai più sul divano di nessuno. Abbastanza per guardare mio figlio negli occhi e dirgli esattamente cosa pensavo del suo “amore duro”.

La domanda non era cosa avrei fatto con i soldi. La domanda era cosa avrei fatto con il potere.

**Capitolo 2: Il giorno dopo**
Dormii poco quella notte. Ogni volta che chiudevo gli occhi, vedevo i numeri danzare nell’oscurità. Mi alzai prima dell’alba, con il cuore in gola. Misi il biglietto in una scatola di biscotti vuota, nascosta in fondo alla valigia.

Marco ed Elisabetta tornarono a metà mattina. Marco sembrava stanco, Elisabetta raggiante, come sempre.
«Hai dormito bene, mamma?» chiese Marco, senza guardarmi.
«Sì» mentii.

Passai la mattina fingendo normalità. Lavai i piatti, piegai le coperte, evitai la cucina mentre Elisabetta preparava il suo frullato proteico. Tutto era routine, ma ogni gesto aveva un nuovo significato. Ora avevo un segreto.

Alle dieci in punto, chiamai il numero del SuperEnalotto. Mi spiegarono i passi da seguire. Dovevo presentarmi all’ufficio principale, con un documento e il biglietto originale. Mi consigliarono di portare un avvocato.

Non avevo un avvocato. Né un’auto. Né qualcuno da chiamare. Ma avevo il biglietto.

Aspettai che Marco uscisse per lavoro ed Elis

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