Un ragazzo cacciato di casa dai genitori la notte di Capodanno. Anni dopo, aprì loro la porta… Li attendeva un colpo di scena inaspettato.

La notte di Natale, i genitori cacciarono il loro figlio di casa. Anni dopo, lui aprì loro la porta… e quello che trovarono li lasciò senza parole.
Fuori dalle finestre, le luci calde dei festoni brillavano, gli alberi di Natale si riflettevano nei vetri e nell’aria risuonavano le melodie delle canzoni festive. Ma oltre quelle mura, regnava un silenzio bianco. La neve cadeva fitta, come se una mano invisibile la versasse dal cielo senza sosta. Il silenzio era così denso da sembrare quasi sacro, come in una chiesa. Niente passi, niente voci. Solo il sibilo del vento nei comignoli e il lieve fruscio dei fiocchi che scendevano, avvolgendo la città come un manto di destini dimenticati.
Luca Rossi era fermo sulla soglia di casa. Ancora non riusciva a credere che tutto fosse reale. Sembrava un incubo assurdo e crudele. Ma il freddo gli penetrava attraverso i vestiti, gli inzuppava i calzini e il vento gelido gli tagliava il viso. Lo zaino abbandonato nella neve gli ricordava che era tutto vero.
Vattene! Non voglio più vederti! lo strappò dallo stupore la voce rauca e piena dodio di suo padre. Poi, un colpo secco: la porta si sbatté davanti al suo naso.
Suo padre lo aveva cacciato. La notte di Natale. Senza nulla. Senza un addio. Senza possibilità di tornare.
E sua madre? Era rimasta lì, appoggiata al muro, le braccia incrociate sul petto. Non aveva detto una parola. Non aveva cercato di fermare suo marito. Non aveva sussurrato: “È nostro figlio.” Si era solo stretta nelle spalle e si era morsa il labbro per non scoppiare in lacrime.
Aveva taciuto.
Luca scese lentamente dal portico, sentendo la neve infiltrarsi nelle ciabatte, pungergli la pelle come aghi di ghiaccio. Non sapeva dove andare. Dentro di sé cera un vuoto, come se il cuore gli fosse sprofondato da qualche parte sotto le costole.
«Ecco, Luca. Non servi a nessuno. Nemmeno a loro. Specialmente a loro.»
Non pianse. Gli occhi erano asciutti, solo un dolore acuto al petto gli ricordava che era vivo. Piangere ormai era inutile. Tutto era accaduto. Non cera ritorno.
E si mise a camminare. Senza meta. Attraverso la tormenta. Sotto la luce dei lampioni che illuminavano strade deserte. Dietro le finestre, la gente rideva, beveva tè, scartava regali. E lui era solo. In mezzo a una festa che non gli apparteneva.
Non ricordava quanto tempo avesse vagato. Le strade si confondevano. Una guardia lo cacciò da un portone, i passanti lo evitavano, vedendolo fisso. Era un estraneo. Indesiderato.
Così cominciò il suo inverno. Il primo inverno della solitudine. Linverno della sopravvivenza.
La prima settimana, Luca dormì dove capitava: su panchine, nei sottopassaggi, nelle pensiline degli autobus. Tutti lo scacciavano: i negozianti, le guardie, i passanti. Nei loro occhi leggeva non pietà, ma fastidio. Un ragazzo in un giubbotto logoro, con gli occhi rossi e laria spauritaun promemoria vivente di ciò che temevano.
Mangiò quello che trovò: avanzi nella spazzatura, una volta rubò un panino da un banco mentre il venditore era distratto. Per la prima volta nella vita, diventò un ladro. Non per cattiveria, ma per fame. Per paura di morire.
Una sera trovò rifugiouna cantina abbandonata in un vecchio palazzo alla periferia della città. Odorava di muffa, di gatti e di qualcosa di rancido. Ma era caldo: una tubatura del riscaldamento passava vicino, e quel tepore gli bastava per sopravvivere alla notte. La cantina divenne la sua casa. Stendeva giornali, raccoglieva cartoni e si copriva con stracci trovati tra i rifiuti.
A volte si sedeva e piangeva in silenzio. Senza lacrime. Solo un tremito nel petto, un dolore muto.
Un giorno, un vecchio con un bastone e una lunga barba lo trovò. Lo guardò e borbottò:
Ah, sei vivo. Meglio così. Pensavo fossero di nuovo i gatti a rovistare nei sacchi.
Il vecchio lasciò una scatola di carne in scatola e un pezzo di pane. Senza motivo. Luca non lo ringraziò. Solo mangiò, avidamente, con le mani.
Dopo quel giorno, il vecchio tornò a volte. Portava cibo. Non faceva domande. Solo una volta borbottò:
Anchio avevo quattordici anni quando mia madre morì e mio padre si impiccò. Tieniti forte, ragazzo. La gente è cattiva. Ma tu non essere come loro.
Quelle parole rimasero con Luca. Le ripeteva tra sé quando non aveva più forza.
Una mattina non riuscì ad alzarsi. Nausea, brividi, tutto il corpo gli tremava. La febbre gli martellava le tempie, le gambe cedettero. La neve lo aveva sepolto nella cantina, come se volesse congelarlo. Non ricordò come uscì. Solo che strisciò, aggrappandosi ai gradini, finché delle mani lo afferrarono.
Santo cielo, è congelato! una voce femminile, severa ma preoccupata, gli attraversò la mente.
Così conobbe Sofia Bianchi, unassistente sociale del servizio minori. Alta, con un cappotto scuro, occhi stanchi ma attenti. Lo abbracciò come fosse suo figlio, lo strinse forte, come se sapesse che da tempo non sentiva quel calore.
Tranquillo, piccolino. Sono qui. Andrà tutto bene, capisci?
Lui capì. Attraverso il delirio, i brividi. Quelle parole furono il primo gesto umano dopo mesi di solitudine.
Lo portarono in un rifugio in via Palazzoun edificio modesto con le pareti scrostate, ma con lenzuola pulite e il profumo di cibo casalingo: patate, minestra, una speranza silenziosa. Ebbe un letto. Una coperta pesante. E, soprattutto, un sonno senza paura. Per la prima volta da mesi.
Sofia veniva ogni giorno. Gli chiedeva come stava. Gli portava libri. Non fiabe stupide, ma opere vere. Pirandello, Calvino. Poi persino un testo di legge.
Ascolta, Luca, gli disse porgendogli il libro. Conoscere i tuoi diritti significa essere protetto. Anche se non hai nulla. Se li conosci, non sei più indifeso.
Lui annuì. Lesse. Assorbì ogni parola come una spugna assorbe lacqua.
Con il tempo, diventò più sicuro. Dentro di lui cresceva qualcosa di vivo, di ardente. Il desiderio di essere chi sa. Chi può difendere. Chi non ignora un bambino scalzo nella neve.
A diciotto anni, superò lesame di maturità e si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza allUniversità di Bologna. Sembrava impossibilepiù un sogno che realtà. Temeva di non farcela. Che tutto sarebbe crollato. Ma Sofia gli sorrise:
Ce la farai. Hai qualcosa che molti non hanno: una spina dorsale.
Studiò di giorno, la sera lavoravalavava i pavimenti in una tavola calda vicino alla stazione. A volte dormiva nello sgabuzzino tra un turno e laltro. Beveva caffè amaro da un thermos, leggeva tutto ciò che trovava, risparmiava sul cibo per arrivare a fine mese. Dormiva poco. Scriveva tes

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