Era passato solo un mese dal giorno in cui avevamo sepolto mamma, e già mio fratello aveva chiamato un perito per valutare la casa. Nel giardino della nostra casa dinfanzia a Castellammare di Stabia, le mele cotogne cadevano una dopo laltra, colpendo il terreno con un tonfo sordo. La casa, una vecchia costruzione degli anni 70 con due stanze e una veranda in legno, sembrava essersi rimpicciolita da quando eravamo bambini. Ma il terreno di quasi mille metri quadrati era diventato improvvisamente la moneta di scambio più preziosa tra me e mio fratello, Luca.
“Andreina, dobbiamo essere pratici,” mi aveva detto al telefono il giorno prima. “Tu vivi a Milano, io a Roma. Nessuno di noi può trasferirsi qui. Ha senso tenere questa casa vuota? Meglio venderla e dividere i soldi.”
La sua logica era impeccabile, fredda ed efficiente, come era sempre stato Luca. La vendita sarebbe stata la soluzione razionale. Ma come puoi mettere un prezzo sul posto dove hai imparato a camminare, dove hai piantato il tuo primo albero, dove i tuoi genitori hanno vissuto una vita intera?
Ero seduta al tavolo della cucina, coperto dalla tovaglia di plastica scolorita con motivi floreali, e sfogliavo un vecchio album di foto. Papà, morto cinque anni prima, sorrideva sotto i suoi folti baffi in una foto dellestate dell89. Accanto a lui, mamma teneva un cesto di prugne e sembrava più giovane di quanto io fossi mai stata.
Il telefono vibrò. Era Luca.
“Ho parlato con un agente immobiliare. Dice che possiamo chiedere 150.000 euro per la casa e il terreno. È una buona cifra, Andreina. Pensa a cosa potresti fare con la tua metà.”
“Devo pensarci, Luca. Non è una decisione facile per me.”
“Cosa cè da pensare? La casa è vuota, si sta rovinando. Né tu né io abbiamo tempo di venire a occuparcene. È irresponsabile lasciarla così.”
Aveva ragione, naturalmente. La mia vita era a Milano, con mio marito, i figli e il mio lavoro in azienda. Tornavo a Castellammare solo due o tre volte lanno, e negli ultimi tempi solo per occuparmi di mamma quando la malattia laveva inchiodata a letto. Luca veniva ancora più raramente, con Roma e la sua frenetica vita da avvocato di successo sempre in primo piano.
Quella sera, accesi il fuoco nella stufa di terracotta e iniziai a sistemare le cose di mamma. I suoi vestiti semplici, ordinati perfettamente nellarmadio. Il servizio di porcellana per il tè, usato solo “nelle occasioni speciali”. La pila di ricette scritte a mano, conservate in una scatola di biscotti. Ogni oggetto sembrava ancora respirare la sua presenza.
Da qualche parte, tra le sue cose, trovai una busta ingiallita. Dentro cera latto di proprietà della casa e una lettera incompiuta indirizzata a “Figli miei”. La scrittura di mamma, ordinata e precisa come lei, riempiva una pagina:
“Cari figli, quando leggerete questa lettera, io probabilmente non ci sarò più. Questa casa è stata tutta la mia vita e quella di vostro padre. Qui vi ho cresciuto, qui abbiamo riso e pianto, qui siamo invecchiati. Non è mai stata grande o lussuosa, ma era piena di amore. So che le vostre vite sono lontane ora e forse questa casa vi sembra solo un peso. Ma prima di prendere qualsiasi decisione, voglio che ricordiate una cosa…”
La lettera si interrompeva bruscamente, come se mamma non avesse trovato le parole giuste o il tempo non le avesse permesso di finirla.
Il mattino dopo, Luca arrivò con la sua macchina nuova, parcheggiandola davanti al cancello. Lo osservai dalla porta di casa, rendendomi conto di quanto sembrasse estraneo in quel posto. Il suo costoso completo non si addiceva alla semplicità del cortile dove avevamo corso scalzi da bambini.
“Ho portato il contratto per il perito,” disse invece di salutare.
Gli porsi la lettera trovata la sera prima, senza dire nulla. La lesse in silenzio, la sua espressione cambiando appena.
“È incompiuta,” commentò.
“Sì, come la nostra conversazione su cosa fare con la casa.”
Uscii in giardino, tra le mele cadute e gli ortaggi curati da mamma fino al suo ultimo mese di vita. Il piccolo frutteto dietro casa, dove papà aveva costruito unaltalena per noi, era ora incolto.
“Ti ricordi quando litigammo sullaltalena e cademmo entrambi, rompendomi il braccio?” gli chiesi.
Un breve sorriso gli attraversò il viso. “E papà ci portò in ospedale in bicicletta, con te in braccio e io che pedalavo dietro, piangendo più forte di te.”
Inaspettatamente, iniziammo a ridere entrambi, ricordando episodi dellinfanzia che avevamo completamente dimenticato. La festa a sorpresa per i 50 anni di papà, quando la torta scivolò dal tavolo. La prima volta che Luca si ubriacò con il limoncello fatto da papà. Le sere dinverno in cui stavamo tutti e quattro intorno alla stufa.
Solo chi ha vissuto momenti simili nelle famiglie italiane può capire davvero quanto peso emotivo porti la casa dei genitori e quanto dolorosa possa essere la separazione da essa, soprattutto quando i fratelli non riescono a trovare un accordo.
Dopo ore di ricordi, Luca si alzò e guardò intorno, come se vedesse la casa per la prima volta.
“E se non la vendessimo?” disse allimprovviso.
Lo guardai sorpresa. “Ma hai detto che era irresponsabile tenerla.”
“Sì, se la lasciamo marcire. Ma e se la ristrutturassimo? Potrebbe essere un posto dove portare i nostri figli in vacanza, dove ritrovarci per le feste. Un posto che rimanga della famiglia.”
La sua proposta mi colse di sorpresa. Luca, il pragmatico Luca, proponeva di tenere la casa per sentimentalismo?
“Significherebbe soldi, tempo, impegno,” feci notare.
“Entrambi abbiamo le risorse. E forse è il momento di investire un po anche nelle nostre radici, non solo nel futuro dei nostri figli.”
Nei mesi seguenti, iniziammo a ristrutturare la casa. Mantenemmo la struttura originale, la stufa di terracotta, la trave di legno dove papà segnava la nostra altezza ogni anno. Modernizzammo la cucina e il bagno, aggiungemmo il riscaldamento e trasformammo la soffitta in due camere per i bambini.
A Natale, ci riunimmo lì tutti insiemeLuca con la moglie e il loro figlio, io con mio marito e le mie bambine. Addobbammo lalbero nel cortile, come facevamo da piccoli, e cuE mentre osservavamo i nostri bambini che costruivano un pupazzo di neve nello stesso punto in cui lo avevamo fatto noi tanti anni prima, capimmo che questa casa non era mai stata solo un edificio, ma il cuore della nostra famiglia, un posto dove le radici e i ricordi avrebbero continuato a vivere.