Era una notte strana, piena di lune che si moltiplicavano nel cielo di Roma. Nel mio sogno, ero seduta nella casa di riposo, con le mani che lavoravano ai ferri senza mai finire un calzino, mentre i ricordi danzavano come foglie d’autunno. E questa storia, bambini miei, è la storia di Anna e della sua piccola Lucia, una storia che parla di come la vita ci insegna cos’è la vera felicità.
Tanto tempo fa, quando ero giovane e credevo che l’amore fosse eterno come il Colosseo, incontrai Vittorio. Alto, con occhi che brillavano come le stelle sul Tevere, e una voce dolce come il miele. Mi innamorai perdutamente, convinta che insieme avremmo spostato le montagne. Ci sposammo, e presto rimasi incinta. Vittorio era al settimo cielo: “Sarà un maschio, Annina! Il mio erede!” Comprava spumante e sognava come quel figlio avrebbe conquistato il mondo. Io ridevo, accarezzando il pancione, immaginando le nostre passeggiate a Villa Borghese, una famiglia perfetta.
Ma nacque una bambina. Piccola, leggera come una piuma, con occhi azzurri come il cielo d’aprile. La chiamai Lucia, perché era la luce che illuminava la mia vita. Vittorio… non venne. Né all’ospedale, né alla dimissione. Sparì, come se non fosse mai esistito. Sua madre, la signora Grazia, mi piantò il coltello nel cuore: “Una femmina? Ma dàtela via, a cosa vi serve?” Ascoltavo, mentre le lacrime scendevano da sole. Come si fa? Era la mia carne, il mio cuore!
Tornai a casa da sola, con Lucia stretta al petto e una valigia in spalla. Vivere con Vittorio era impossibile, e i miei genitori erano lontani. Ci sistemammo dalla nonna Clara, in una stanza minuscola di una vecchia casa popolare. Mura sottili, ma piene di calore. Nonna Clara brontolava spesso, ma aveva un cuore d’oro. Mi preparava il tè, cucinava la minestra, e cullava Lucia quando io correvo al lavoro. “Non ti preoccupare, Annina,” diceva. “Dio vede le tue lacrime, vi darà una buona sorte.” E io ci credevo, perché altrimenti non sarei sopravvissuta.
Vivevamo nella miseria, santo cielo, che miseria. Di giorno vendevo giornali e sigarette in un chiosco, di notte pulivo uffici pavimenti, vetri, scrivanie. Le mani screpolate, la schiena a pezzi. Ma quando Lucia sorrideva, quando le sue manine mi cercavano, tutto svaniva. Lei era la mia gioia, il mio senso. Di Vittorio non chiedeva mai, ma sentiva che quel tema mi faceva male. Cercavo di non piangere davanti a lei, anche se di notte il cuscino era bagnato.
Passarono cinque anni. Lucia andava all’asilo, io le intrecciavo le trecce, e mi chiedevo ancora come fosse possibile che l’uomo che mi aveva giurato amore ci avesse abbandonato. Ma la vita non aspettava bisognava mangiare, vestire la bambina, pagare l’affitto. Nonna Clara aiutava come poteva, e io le sarò grata per sempre. Mi ripeteva: “Annina, la famiglia non è chi condivide il sangue, ma chi ti tende la mano nel bisogno.” E aveva ragione.
Un giorno, tornando dal lavoro, stanca morta, vidi una Mercedes nera parcheggiata davanti a casa, luccicante come al cinema. E lì, accanto, c’era Vittorio. Invecchiato un po’, ma sempre lui anello d’oro, camicia costosa, capelli perfetti. E un bambino, di quattro anni, identico a lui. Mi vide e impallidì come un cencio. Lucia, coraggiosa, mi tirò la mano: “Mamma, chi è quell’uomo?”
Vittorio la fissò, senza parole. Perché quella era sua figlia, quella che aveva scacciato. Poi le portiere della macchina si aprirono, e sbucò fuori la sua nuova donna pelliccia di leopardo, labbra da papera, voce da mercato. “Vittò, chi sono questi pezzenti?” strillò. Il bambino fece eco: “Papà, andiamo, sono sporchi!”
Mi si strinse il petto, ma tenni alta la testa. Presi Lucia per mano e me ne andai. Lenta, dignitosa. Perché noi non eravamo pezzenti, eravamo una famiglia. Vittorio fece un passo, forse voleva parlare, ma non ebbe il coraggio. E meno male. Che poteva dire? Scusarsi? Troppo tardi, caro mio. Le porte che si chiudono non sempre si riaprono.
A casa odorava di minestra nonna Clara ce ne aveva lasciata. Lucia cenava, io le accarezzavo i capelli. “Mamma, chi era quell’uomo?” chiese. Risposi: “Una persona del passato, Lucia. Stiamo meglio senza di lui.” Annuì, perché a cinque anni aveva più saggezza di Vittorio in tutta la sua vita.
Di lui seppi poi dai vicini. Lo videro seduto al bar, a fissare il bicchiere di whisky. Forse capì che aveva scambiato la felicità vera per anelli e Mercedes. Ma il tempo non torna indietro. La sua nuova compagna non durò trovò uno più ricco. E quel bambino crebbe senza padre, perché Vittorio non era tipo da figli, preferiva le carte e il vino.
Lucia diventò una donna splendida. Studiò, si laureò, ora lavora e mi aiuta. Di Vittorio non parliamo mai non c’è motivo. E io, anche qui nella casa di riposo, non sono triste. Perché io e Lucia abbiamo resistito. Non perché forti, ma perché ci amavamo. E nonna Clara, Dio l’abbia in gloria, è sempre con noi in ogni piatto di minestra, in ogni parola buona.
Ricordate, cari: la felicità non è nei soldi, nelle macchine luccicanti. La felicità è essere amati. Anche in silenzio, anche in una stanzetta che sa di minestra e di sogni infantili. E quando scegliete con chi dividere la vita, guardate al cuore, non agli anelli d’oro. Perché il cuore non tradisce, mentre l’oro è solo metallo freddo.