Un cane che continua a dormire accanto alla porta dell’ospedale dove è morto il suo padrone, senza capire perché non torna più.

Oggi voglio scrivere di un cane che ancora dorme accanto alla porta dellospedale dove è morto il suo padrone, senza capire perché non torna più.

Bobo arrivò allospedale alle sei del mattino, come sempre. Le sue zampe conoscevano ogni crepa del marciapiede, ogni dislivello sul selciato che portava alle porte di vetro delledificio bianco. Si sistemò nel solito posto: accanto alla panchina di ferro verde, da cui poteva vedere sia lingresso principale che quello del pronto soccorso.

Negli ultimi giorni aveva perso peso. Il suo pelo dorato, prima lucido, ora era opaco e arruffato. Ma i suoi occhi marroni restavano vigili, scrutando ogni volto che entrava e usciva dallospedale. Cercava uno solo: quello di Nonno Luigi.

Luigi era stato tutto per lui negli ultimi otto anni. Il vecchio falegname lo aveva trovato da cucciolo, abbandonato in una scatola di cartone sotto la pioggia. “Dai, piccolo gigante,” gli aveva detto avvolgendolo nella sua giacca da lavoro. “Sembri un Bobo.” E da allora Bobo era rimasto il suo nome.

Insieme avevano passeggiato ogni mattina al parco, pranzato nella bottega di falegnameria, guardato la televisione la sera. Luigi gli parlava come se fosse una persona, gli raccontava le sue preoccupazioni, le sue gioie. “Sai una cosa, Bobo? Oggi la sedia che stavo costruendo è venuta perfetta. Ormai siamo una vera squadra, eh?”

Tre settimane fa, Luigi aveva iniziato a tossire tanto. Una mattina, mentre facevano colazione, si era accasciato. Bobo aveva abbaiato disperato finché i vicini non avevano chiamato lambulanza. Aveva seguito la barella bianca fino alle porte dellospedale, ma lì si erano chiuse per lui.

“I cani non possono entrare,” aveva detto qualcuno in camice bianco. Bobo non capiva le parole, ma capiva il gesto. Rimase ad aspettare.

I primi giorni, molte persone avevano provato a portarlo via. Una signora anziana con un guinzaglio rosa: “Vieni, piccolo, ti accudirò io.” Un ragazzo che gli offriva del cibo: “Non puoi restare qui, amico.” Erano persino arrivati dal canile, ma Bobo si nascondeva ogni volta che vedeva il furgone bianco con le gabbie.

Lui sapeva aspettare. Luigi tornava sempre.

Il personale dellospedale ormai si era abituato a lui. La dottoressa Bianchi, che usciva sempre alle cinque del pomeriggio, gli aveva messo una ciotola dacqua fresca. Marco, il guardiano, gli teneva da parte un pezzo del suo panino ogni giorno. “Sei un cane fedele,” gli diceva grattandogli le orecchie. “Se solo le persone fossero come te.”

Ma questa mattina era diversa. Bobo lo sentì prima di vederlo. Un odore familiare mescolato ad altri profumi sconosciuti. La sua coda si mosse appena, le orecchie si drizzarono. Quando le porte automatiche si aprirono, eccolo lì: Luigi.

Ma qualcosa era cambiato. Luomo camminava più piano, con un bastone, e aveva tubi trasparenti che gli uscivano dal naso. Era più magro, più fragile. Ma era lui.

Bobo non corse come avrebbe fatto un tempo. Si avvicinò piano, quasi capisse che il suo umano ora era più delicato. Si sedette di fronte a lui e sollevò la testa. Luigi si chinò con fatica e gli accarezzò la testa con mani tremanti.

“Perdonami, Bobo. Perdonami per aver tardato tanto.”

Bobo leccò dolcemente la mano di Luigi. Non importava il tempo. Non importavano i giorni vuoti. Il suo umano era tornato.

La dottoressa Bianchi si avvicinò con un sorriso.

“Signor Luigi, questo cane non si è mosso da qui in tre settimane. Né con la pioggia, né con il freddo. Gli infermieri lo hanno nutrito, ma lui non ha mai smesso di aspettare.”

Luigi guardò Bobo con gli occhi lucidi.

“È perché lui non sa arrendersi, dottoressa. Non lha mai saputo fare.”

Mentre camminavano lentamente verso casa, Bobo che gli stava vicino senza tirare il guinzaglio, la gente li guardava con tenerezza. Il cane che aveva aspettato, luomo che era tornato.

Quella sera, Bobo si accucciò accanto al letto di Luigi, che ora era un materasso medico in salotto. Il suo umano non era più lo stesso, e forse non lo sarebbe mai stato del tutto. Ma erano insieme.

Luigi gli accarezzò il dorso piano.

“Grazie per avermi ricordato che lamore non conosce impossibili, Bobo. Che aspettare non è perdere tempo quando aspetti chi ne vale la pena.”

Bobo chiuse gli occhi, sentendo per la prima volta dopo settimane la pace di essere nel posto giusto. Aveva imparato che lamore vero non misura il tempo, solo la certezza. E lui era sempre stato sicuro che Luigi sarebbe tornato.

Perché è questo che fa la famiglia: torna. Sempre.

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Un cane che continua a dormire accanto alla porta dell’ospedale dove è morto il suo padrone, senza capire perché non torna più.