Una Storia di Donne

**Diario di Tiziana**

Tiziana e Bruno erano considerati la coppia perfetta. Entrambi belli, di successo, con una solida situazione finanziaria, ma senza figli. I medici alzavano le spalle, dando diagnosi poco incoraggianti.

Ma non persero mai la speranza. Andavano in chiesa, pregavano, visitavano luoghi sacri. Sentivano parlare di una guaritrice in un paesino e partivano subito. Fu una di loro a dire che avrebbero avuto un figlio, anzi più di uno, ma dopo dolore e perdite. Tiziana, felice, ascoltò distrattamente, ricordando solo che doveva credere.

“Avete i soldi, viaggiate, vivete per voi! I figli sono ingrati, non vi daranno neanche un bicchiere dacqua da vecchi”, mormoravano alle loro spalle.

“È già vecchia, con un bouquet di acciacchi, e vuole figli? Dovrebbe pensare ai nipoti” Ma come avrebbero avuto nipoti, senza figli?

Una volta, Tiziana disse a Bruno che poteva lasciarla per una donna più giovane, capace di dargli un bambino. Lui la guardò in un modo che la fece pentire di quelle parole, e non ne parlò più.

Avevano tutto: lavoro, casa, soldi. Ma non bastava. Tiziana sapeva di poter essere la migliore madre del mondo. Immaginava già il bambino tra le braccia, i primi passi, la scuola. A volte si convinceva: “Molti vivono senza figli. È il mio destino. Se Dio non me ne dà, forse non li merito”. E cercava in sé i difetti per cui era punita.

Forse le preghiere funzionarono, o Dio ebbe pietà. Un giorno, il miracolo accadde.

Tiziana non contava più i giorni. Quando una mattina si sentì male, pensò a qualcosa che aveva mangiato. Ma la nausea tornò. Poi, lodore della carne la fece scappare dalla cucina. “No, non può essere” Comprò due test.

Quante volte speriamo in un miracolo, e poi non ci crediamo. Anche Tiziana stentò a fidarsi di quelle due linee rosa. Aspettò Bruno con impazienza.

“Sono incinta”, disse non appena lui entrò, porgendogli il test.

Si abbracciarono, stretti, finché le lacrime non si asciugarono.

Bruno non la lasciava sollevare pesi, nemmeno fare la spesa da sola. “Smettila di preoccuparti. Donne più vecchie di me partoriscono!”, sbuffava lei.

“Non mi importa delle altre. Ho solo te. Non voglio che ti succeda nulla”, diceva lui, baciandola. “E poi, mi piace prendermi cura di voi”.

Quando la pancia si fece evidente, vicini e colleghi commentarono. Alcuni si rallegrarono, altri no.

“Alla fine avete fatto la fecondazione assistita?”

“Non partorirà, o avrà un mostro”, bisbigliò una vicina. Tiziana se ne andò in fretta, accarezzando la pancia: “Non ascoltarli. Sarai bellissima e intelligente”. Sapeva già che sarebbe stata una femmina.

Prima evitava i reparti per bambini, ora ci entrava decisa, scegliendo il meglio per la piccola. A casa, stendeva i vestitini sul letto, immaginandocela dentro. Li stringeva al viso: odoravano di negozio, ma erano per sua figlia.

Al momento del parto, optarono per un cesareo in una clinica privata. Troppa attesa per rischiare. La bambina nacque sana. Ogni giorno ringraziavano il cielo per quella gioia.

Tiziana non aveva latte, comprarono le migliori formule. Passavano ore a guardarla dormire. Poi i primi dentini, le prime parole, i primi passi. Bruno le propose di non tornare a lavoro: guadagnava abbastanza.

“Niente asilo, prenderà solo malattie”.

La figlia divenne il senso della vita di Tiziana. Ginevra cresceva amata, bella e tranquilla.

Ci si abitua alla felicità, smettendo di notarla. Ginevra era già a scuola. Una sera, mentre faceva i compiti, Bruno leggeva il giornale e Tiziana preparava la cena. Mancava solo il maionese per linsalata.

“Bruno, vado un attimo al supermercato”, disse.

Lui annuì, senza alzare lo sguardo.

Tornata, finì la cena. Ma Ginevra non cera.

“Dovè Ginevra?”

“È andata da Nadia poco fa”.

Erano le sei e mezza. Si dice che una madre senta un presentimento, ma Tiziana era serena. Nadia abitava nel palazzo accanto.

Cenarono senza di lei. Poi Tiziana chiamò a casa di Nadia. Rispose la madre:

“Ginevra non è qui. Pensavamo non laveste lasciata venire”.

La cornetta cadde. Bruno balzò in piedi.

“Non cè da Nadia”

Uscirono di corsa. Era già buio. Giravano i cortili, chiamandola. Nessuno laveva vista. Bruno chiamò la polizia.

“Non preoccupatevi, la troveremo. Tornate a casa, potrebbe rientrare”.

Aspettarono, sobbalzando a ogni squillo. Ma Ginevra non tornò. Le ricerche durarono giorni, invano.

Tiziana rifiutava il peggio, sperando. Passarono mesi. Bruno e lei smisero di parlarsi, evitando lo sguardo dellaltro, specchio della disperazione.

Lui si chiuse nel lavoro. Lei andava in commissariato. Lagente abbassava gli occhi, rispondeva evasivo.

Tiziana tornò a lavorare, per distrarsi. Le colleghe evitavano di parlare di figli, ma a Natale discutevano di regali e recite. Lei usciva dalla stanza.

“Per colpa sua dobbiamo dimenticarci dei nostri bambini?”, brontolavano.

A casa, Tiziana si sfogava su Bruno.

“È colpa tua! Perché lhai lasciata andare?”.

Lui non rispondeva. Cominciò a bere. Una volta, sfinito, andò dalla madre. Lei non lo trattenne.

Passarono tre anni.

Una primavera tiepida. Tiziana uscì, raramente lo faceva. Arrivò alla passeggiata sul lungofiume, godendosi il sole. Un uomo giocava con un pastore tedesco, lanciando un bastone.

Ginevra voleva un cucciolo. Ma Bruno era allergico ai gatti. Lui preferiva cani grandi, lei no. “Se glielavessimo preso, forse non sarebbe andata da Nadia”, pensò.

Luomo e il cane si avvicinarono.

“Tiziana Serafini?”, sentì alle spalle.

Era lagente che aveva cercato Ginevra.

“Buongiorno. È il suo cane?”, chiese, per educazione.

“Sì. È Rick”.

Il cane la fissava con occhi comprensivi. Gli accarezzò la testa.

“È una bella primavera”, disse Matteo Nicola.

Camminarono insieme. Lui parlò della sua famiglia perduta: moglie e figlio, uccisi da un ubriaco. I colleghi gli regalarono Rick per tirarlo su.

“Quelluomo è in galera. Ecco casa mia. Vuole un tè? Poi la riaccompagno”.

Rick la guardava, in attesa.

Entrò. Matteo tagliava il formaggio goffamente.

“Faccio io”, disse lei, affettandolo perfetto.

“Si vede la mano femminile”, sorrise lui.

Chiacchierarono, ridendo. Poi lui la riportò a casa.

“Usiamo il ‘tu'”, propose.

Per la prima volta, Tiziana tornò senza paura della solitudine. Si vergognò un attimo, ma il giorno era troppo bello. “Basta, è ora di vivere”.

Rate article
Add a comment

;-) :| :x :twisted: :smile: :shock: :sad: :roll: :razz: :oops: :o :mrgreen: :lol: :idea: :grin: :evil: :cry: :cool: :arrow: :???: :?: :!:

ten + 11 =

Una Storia di Donne