**26 ottobre 1983**
Rimasi orfana a sei anni. Mia madre aveva già due bambine e stava per partorire la terza. Ricordo tutto: le sue urla, le vicine riunite in casa che piangevano, la sua voce che si spegneva lentamente
Perché non chiamarono un medico? Perché non la portarono in ospedale? Non lho mai capito. Forse il paese era troppo isolato, le strade bloccate dalla neve? Non lo so, ma doveva esserci un motivo. Mia madre morì di parto, lasciando me, mia sorella e la neonata, Giovanna.
Dopo la sua morte, mio padre era perso. Non avevamo parenti nelle vicinanze, tutti vivevano al Sud, e nessuno poteva aiutarlo con noi. Le vicine gli suggerirono di risposarsi subito. Meno di una settimana dopo il funerale, era già promesso a unaltra donna.
Gli dissero di chiedere la mano della maestra del paese, una donna gentile. Mio padre ci andò e lei accettò. Senza dubbio, laveva conquistata. Era giovane e belloalto, magro, con occhi neri come quelli degli zingari, in cui ci si poteva perdere.
Quella sera, mio padre arrivò con la sua fidanzata per presentarcela.
“Vi ho portato una nuova mamma!”
Ero furiosa. Non capivo bene, ma sentivo nel cuore che qualcosa non andava. La casa profumava ancora di mamma. Indossavamo ancora i vestiti che lei aveva cucito e lavato, e ora lui ci portava già unaltra donna. Oggi lo comprendo, ma allora li odiai entrambi. Non so cosa lei si aspettasse, ma entrò in casa a braccetto con mio padre, un po ubriachi.
“Chiamatemi mamma e resterò con voi.”
Dissi a mia sorella:
“Non è la nostra mamma. La nostra è morta. Non chiamarla così!”
Mia sorella scoppiò in lacrime, mentre io, la maggiore, avanzai.
“No, non ti chiameremo mamma. Non sei nostra madre. Sei unestranea!”
“Oh, che coraggio per una bambina così piccola! Allora non resterò.”
La maestra uscì, e mio padre stava per seguirla, ma si fermò sulla soglia, indeciso. Rimase immobile, poi ci abbracciò e pianse disperato, e noi con lui. Anche Giovanna nel lettino si mise a piagnucolare. Piangevamo nostra madre, lui piangeva sua moglie, ma il nostro dolore era più grande. Le lacrime degli orfani sono uguali in tutto il mondo, e il dolore per una madre non ha lingua. Fu lunica volta che vidi mio padre piangere.
Rimase con noi altre due settimanelavorava nel taglio del legno e la sua squadra partiva per i boschi. Che fare? Non cera altro lavoro in paese. Sistemò tutto con una vicina, le lasciò dei soldi per il cibo, affidò Giovanna a unaltra, e partì.
Rimosimo sole. La vicina veniva, cucinava, accendeva il fuoco e se ne andava. Aveva le sue cose da fare. E noi passavamo le giornate al freddo, affamate e spaventate. Il paese cercava una soluzione. Serviva una donna speciale, capace di amarci come figlie sue. Ma dove trovarla?
Scoprimmo che una cugina lontana di una paesana conosceva una donna abbandonata dal marito perché non poteva avere figli. Forse ne aveva avuto uno, morto presto. Trovarono il suo indirizzo, scrissero una lettera e, tramite unaltra zia, la chiamarono.
Quando zia Livia arrivò una mattina, entrò in silenzio. Mi svegliai sentendo passi in casa. Qualcuno si muoveva come mamma, sbattendo le stoviglie, e lodore delle frittelle riempiva laria! Mia sorella ed io sbirciavamo dalla fessura della porta. Livia lavava, puliva, sistemava tutto. Poi capì che eravamo sveglie.
“Su, venite piccole biondine, mangiamo!”
Ci colpì che ci chiamasse cosìeravamo bionde come nostra madre. Ci facemmo coraggio e uscimmo.
“Sediatevi!”
Non esitammo. Divorammo le frittelle e cominciammo a fidarci.
“Chiamatemi zia Livia.”
Ci lavò, ci cambiò, pulì tutto e se ne andò. Tornò il giorno dopo. In tre settimane, la casa era come nuova, ordinata come con mamma. Ma zia Livia non ci permetteva di affezionarci troppo, anche se mia sorella Margherita, di tre anni, si attaccò subito. Io diffidavo. Era più severa, distante. Mamma invece rideva, cantava, chiamava papà “Enzo”.
“Comè vostro padre?”
Iniziò a lodarlo goffamente:
“È bravissimo! Quando beve, dorme subito!”
Zia Livia si preoccupò:
“Bebe spesso?”
“Sì!” disse Margherita.
Le diedi un calcio sotto il tavolo:
“No, solo per le feste!”
Quella sera Livia se ne andò tranquilla, e papà tornò dai boschi. Guardandosi intorno, sorpreso, disse:
“Pensavo foste in miseria, invece vivete come principesse.”
Gli raccontammo tutto. Rifletté un attimo poi annuì:
“Andrò a conoscere questa nuova padrona di casa. Comè?”
“È bellissima!” disse Margherita. “Fa le frittelle e racconta storie.”
Oggi sorrido. Livia non era una bellezzamagra, piccola, modestama i bambini capiscono la vera bellezza?
Papà rise, si vestì e andò da lei. Il giorno dopo tornarono insieme. Livia entrò timida, quasi impaurita.
“Chiamiamola mamma, è buona!” dissi a Margherita.
E insieme gridammo:
“Mamma! Mamma è qui!”
Insieme andarono a prendere Giovanna. Per lei, Livia divenne una vera madrela custodiva come un tesoro. Giovanna non ricordava la mamma vera, Margherita quasi nulla. Io sì. Una volta sorpresi papà a guardare la foto di mamma, mormorando:
“Perché sei andata via così presto? Portando via tutta la mia gioia.”
Non rimasi a lungo con loro. Dalla quarta elementare andai in collegionel paese non cerano scuole superiori. Dopo la terza media, allistituto tecnico. Volevo scappare, ma perché? Livia non mi fece mai male, mi protesse come una figlia, eppure evitavo di legarmi. Forse sono ingrata.
Diventare ostetrica non fu un caso. Non posso salvare mia madre, ma posso salvare altre mamme